Voto di midterm: Usa e Europa

Dal voto di midterm nessuna spallata a Trump. La questione diventa ora come rapportarsi alla novità costituita dalla politica estera di Trump. L'Europa ne prenda atto e cominci a pensare al problema politico dell'Europa-potenza.

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Trump ok

Trump okLe elezioni di midterm non hanno rivoluzionato il quadro politico negli Stati Uniti. Il risultato è un sostanziale pareggio. Il Partito repubblicano mantiene il Senato. Il Partito democratico conquista la Camera dei rappresentanti. Se le previsioni della vigilia sono state rispettate, il voto si presta ad alcune messe a punto, in chiave interna Usa e in chiave di politica internazionale per l’Europa.

Il voto di midterm non ha indebolito Trump

Gli elettori americani non hanno bocciato Donald Trump. Il voto di midterm è tradizionalmente sfavorevole al partito del Presidente in carica. Tuttavia, la galoppante crescita economica e un’aggressiva campagna elettorale sul tema dell’immigrazione hanno permesso a Trump di recuperare consensi.

Il Partito repubblcano ha centrato l’obiettivo strategico del controllo del Senato. Quest’ultimo ratifica le nomine presidenziali dei giudici della Corte suprema, la cui giurisprudenza ha un enorme impatto sulla società e sul costume americani. Nei primi due anni di mandato Trump ha nominato due giovani giudici conservatori, Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh. Oggi, con 5 giudici su 9, la Corte è a maggioranza repubblicana.

La carica di giudice alla Corte suprema è a vita. Due dei giudici nominati da Bill Clinton, Ruth Bader Ginsberg e Stephen Breyer, hanno rispettivamente 85 e 80 anni. Di conseguenza, soprattutto se nel 2020 Trump fosse rieletto, non è impensabile che possa fare nuove nomine: ciò che inciderebbe ancor di più sulla composizione della Corte e, di conseguenza, sulla società americana per decenni a venire.

Il risultato elettorale di midterm allontana l’impeachment

Il Partito democratico non può festeggiare. Non solo le consultazioni di midterm non hanno inferto spallate all’inquilino della Casa Bianca. Dal voto non sono emerse personalità capaci di sfidare Trump alle presidenziali 2020. Il voto popolare ha bocciato tutti i candidati che la stampa liberal battezzava come astri nascenti del Partito dell’Asinello: Beto O’Rourke, Andrew Gillum, Stacey Abrams e Randy Bryce.

Il risultato delle elezioni di midterm non permette al Partito democratico di brandire l’arma dell’impeachment. I democratici potrebbero avviare la procedura alla Camera ma il Senato, dove il GoP resta in maggioranza, la boccerebbe.

La corsa per la Casa Bianca resta aperta

La politica ha logiche e tempi propri, due anni sono un orizzonte temporale lungo. Ad avviso di Diplomazia Italiana la partita delle presidenziali Usa 2020 è aperta.

Anzi, la circostanza che non sia ancora emerso il “campione” che nel 2020 lancerà il guanto di sfida a Trump è positiva per i democratici: al candidato saranno risparmiati due logoranti anni di attacchi, sopra e sotto la cintura, come è uso nella politica americana.

Il voto di midterm dice che gli Stati Uniti sono un paese diviso. In vista delle Presidenziali 2020, il risultato elettorale dovrebbe consigliare al Partito democratico una riflessione sul dato che la demonizzazione di Trump non ha pagato. E che le sue diverse quanto improbabili declinazioni – la russofobia da Guerra Fredda, il “Me too” isterico, l’auto-ghettizzante “Black lives matter”, gli allarmi nazismo e razzismo, il sempre più grottesco politicamente corretto – hanno minato la credibilità di molti esponenti democratici.

La diplomazia di Trump: da Stato a Stato

I riflessi più interessanti del voto di midterm potrebbero esserci sul piano internazionale. Per molti versi, se si considera che l’impeachment non è mai stata un’opzione realistica, per Diplomazia Italiana la principale posta in gioco della partita elettorale di midterm è proprio la politica estera americana. Al riguardo, è necessario chiarire alcuni dati.

Da un lato, gli scopi di politica estera di Trump non differiscono da quelli dei suoi predecessori. Come loro, Trump vuole conservare e rafforzare l’egemonia degli Stati Uniti, militare ed economica. Dall’altro, a differenza di quella dei suoi predecessori, la diplomazia di Trump non maschera i progetti egemonici Usa ammantandoli di retorica multilateralista e mondialista.

Nella visione di Trump, la supremazia degli Usa va perseguita con un approccio bilaterale, da Stato a Stato, che massimizzi il peso della potenza relativa americana. Questa concezione dei rapporti internazionali spiega l’avversione di Trump per l’Onu e per l’Europa di Bruxelles, così come la messa in discussione della Nato.

È in base a questo approccio che l’inquilino della Casa Bianca progetta di ridefinire i rapporti fra Stati Uniti e Russia. Trump ha pragmaticamente preso atto del dato politico del ritorno della Russia di Putin nell’agone internazionale. E, in quest’ottica, negoziare il rapporto Washington-Mosca sulla base dei rapporti di forza. Non come una messianica crociata del Bene, incarnato dal progressismo liberal e dall’ideologia mondialista, opposto al Male, rappresentato dal nazionalismo identitario.

La politica estera di Trump, spia di una frattura profonda in seno alle élites americane

Si è qui di fronte alla messa in discussione dell’ideologia mondialista che da quasi tre decenni orienta la politica estera dei paesi occidentali.

Questa nasce da una sorta di mutazione ideologica di una parte della classe dirigente americana che, per la prima volta, si contrappone apertamente alla potenza del capitalismo finanziario globalizzato.

Una mutazione che si accompagna alla volontà di rivalutare le nazioni e i confini, così come di governare il fenomeno dell’immigrazione.

Cambio di linea Usa, un’opportunità per l’Europa

È presto per capire se sulle rive del Potomac prevarrà la linea dello schieramento capitanato da Trump, oppure se i fautori del mondialismo riusciranno a mantenere le casematte del potere.

Certo è che ci si trova dinanzi ad un nuovo fatto politico che si riverbera direttamente sul futuro dell’Europa. Per diverse ragioni, Trump non è un amico dell’Europa bruxellese, di cui disprezza l’inconsistenza politica e l’utilitaristica dipendenza dalla potenza militare americana. Lo testimoniano i ripetuti attacchi alla nomenklatura Ue, le politiche commerciali aggressive e la volontà di far pagare ai paesi europei il conto finanziario della protezione militare Usa.

Proprio il riorientamento della politica americana potrebbe costituire un’opportunità storica per i popoli europei. Un’occasione per riprendere in mano il loro destino. E riportare una vittoria strategica sulla nomenklatura bruxellese e sul progetto dissolutore mondialista di cui si è fatta complice.

Da anni gli Stati Uniti conducono una guerra contro gli interessi economici europei. Washington ha da tempo una pretesa senza precedenti storici, né base legale: quella di conferire vigore extraterritoriale alle proprie leggi, imponendole ad aziende straniere operanti in paesi terzi. E questo a colpi di multe miliardarie imposte dai tribunali nazionali Usa.

La pretesa extraterritorialità della lex americana e l’imposizione del dollaro Usa come mezzo di pagamento internazionale altro non sono che strumenti di dominio. Strumenti che tradiscono una concezione profondamente spregiudicata delle relazioni internazionali che i paesi europei non possono più fingere di ignorare.

Europa e Usa, una divaricazione crescente

La questione iraniana sembra indicare che la sottomissione dell’Europa potrebbe essere giunta al limite. Le incessanti minacce degli Usa a chi intrattiene rapporti commerciali con Teheran suscitano crescente irritazione. I paesi Ue tentano dal canto loro di istituire strumenti di scambio che consentano di aggirare le sanzioni imposte all’Iran dagli Stati Uniti.

La posta in gioco è altissima. Ne va del futuro del dollaro e del suo primato mondiale. E questo in una fase storica in cui importanti paesi come Cina, Russia, Iran, India, Brasile e Turchia tentano di “dedollarizzare” i loro scambi commerciali.

Ponendo fine alla narrativa sorridente di Obama, che in realtà mascherava un ipocrita cinismo, il rude approccio di Trump alle relazioni internazionali potrebbe avere effetti benefici. Laddove a Washington la linea di politica estera di Trump finisse per prevalere, essa potrebbe provocare uno shock salutare per l’Europa.

Di fronte alle sfide di un mondo sempre più instabile e priva dell’ombrello militare Usa, giocoforza l‘Europa dovrebbe tornare alle fondamenta della sua civiltà e dare nuovo vigore al sogno europeo dei suoi popoli, che continuano a riconoscersi nelle loro nazioni plurisecolari.

Sinistra e mondialisti orfani del padrone

In realtà, il riorientamento della politica estera americana è un duro colpo proprio per gli europeisti più ferventi. Il loro dominio sulla politica del Vecchio Continente si basava proprio su un docile allineamento sulle posizioni degli Stati Uniti di Barack Obama e Hillary Clinton, sul dossier Russia come in Medio Oriente e nel Mediterraneo.

Questa è la causa profonda dell’ossessiva ostilità a Trump della sinistra e dei mondialisti europei: le fondamenta del loro potere si stanno sgretolando.

Il quadro politico del Vecchio Continente aggrava la loro isteria. Da un lato, in un numero crescente di paesi, come in Italia e in Ungheria, gli elettori stanno dando fiducia a forze politiche estranee al sistema di potere bruxellese. Dall’altro, si avvicina il redde rationem delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, dalle quali rischiano di uscire ridimensionati.

Soprattutto, proprio mentre i popoli d’Europa manifestano crescente ostilità verso l’élite bruxellese e i suoi disegni, con Trump saldamente installato alla Casa Bianca, la nomenklatura europeista perde il suo principale alleato, al quale si era sottomessa per cristallizzare il suo sistema di potere.

Potenza e sovranità per affrontare le sfide globali

Il recupero della sovranità e dell’identità delle nazioni in seno ad un’Europa unita di fronte alle sfide comuni si delinea come l’orizzonte naturale dei popoli europei. Uno sviluppo politico coerente con la prospettiva di un’Europa finalmente riconciliata. E pronta a fare fronte alle sfide dell’arena internazionale, che chiedono più potenza e più sovranità.

In questa cornice, un Presidente degli Stati Uniti come Trump, che dichiara apertamente guerra all’immigrazione clandestina costituisce un dato politico dirompente. Una variabile inattesa, come talvolta accade in politica, che può incidere in modo determinante sulla partita sull’immigrazione che si sta giocando in Europa.

Quell’immigrazione che – come già si è detto – è una delle partite politiche decisive del nostro tempo. In questa contingenza, la menzogna mondialista dell’abolizione dei confini e dell’immigrazione come inevitabile, desiderabile e necessaria ha perso il suo sostenitore più potente.

L’Europa si riscopra potenza

Il problema politico dell’aridità del progetto Unione europea è ormai ineludibile. Il telaio dell’Ue, fondato sul formalismo giuridico, sulla concorrenza, sull’austerità economica, sulla deflazione e su una finta solidarietà, si è dimostrato incapace di rispondere alle sfide del XXI secolo.

Questo perché l’Unione europea, costruzione impolitica, non ha saputo cogliere la portata della sfida posta dal concetto di potenza.

Duole prenderne atto: oggi l’Unione europea è un vacuum dove, sotto un consunto velo di retorica, si scontrano gli egoismi più sordidi e irresponsabili.

La nostra Europa si trova oggi davanti ad una sfida epocale. Quella di partecipare a ricostruire un ordine internazionale condiviso, fondato sulla ricomposizione del mondo attorno a grandi poli geopolitici strutturati intorno a nazioni potenti.

Una sfida che l’Europa deve affrontare recuperando le sue tradizioni e chiamando i suoi popoli a realizzare insieme qualcosa di grande. Riscoprendo quello che davvero li unisce: la loro identità etnica, culturale e religiosa.

L’Europa deve ricostruirsi su nuove fondamenta, che non possono prescindere dalla volontà dei suoi popoli.


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