La ricorrenza del genocidio armeno costituisce un’occasione per fare il punto sul quadro emerso dalla guerra azero-armena che a fine 2020 ha infiammato lo scacchiere strategico del Caucaso.
Nel settembre 2020, l’Azerbaigian ha scatenato una guerra contro l’Armenia nei territori dell’Artsakh per porre termine al quasi trentennale “conflitto congelato” del Nagorno Karabakh.
Guerra dell’Artsakh, figlia della guerra del Nagorno Karabakh del 1988-1994
Il Nagorno Karabakh è un territorio che appartiene storicamente all’Azerbaigian, ma che è popolato in prevalenza da popolazioni armene.
Sino al 2020, la situazione sul terreno rispecchiava l’esito della guerra del Nagorno Karabakh (1988-1994), che si era conclusa con una vittoria dell’Armenia.
Con la vittoria armena, nel 1994 ampia parte del Nagorno Karabakh diventava la Repubblica dell’Artsakh. L’Azerbaigian, dal canto suo, era costretto a subire la mutilazione di una parte consistente del suo territorio.
Il mutamento dei rapporti di forza fra Azerbaigian e Armenia
Tuttavia, in questi anni i rapporti di forza sono mutati. Baku è un produttore di idrocarburi di primo piano e ha una popolazione tre volte più numerosa di Erevan.
Inoltre, l’Azerbaigian ha instaurato una stretta collaborazione politico-militare con la Turchia e con Israele che gli ha permesso di modernizzare le sue forze armate.
Questi nuovi rapporti di forza hanno reso pressoché inevitabile la vittoria di Baku, ottenuta in poco più di un mese.
Azerbaigian, una vittoria militare che è anche un trionfo politico
Sull’orlo di una disfatta totale, l’Armenia ha dovuto accettare il piano di pace proposto dalla Russia. In questa cornice, con l’accordo del 10 novembre 2020, la vittoria militare dell’Azerbaigian si è tradotta in un trionfo politico.
Baku, infatti, ha riottenuto il controllo di tutti i territori riconquistati durante il conflitto, mettendo termine a un vulnus politico e territoriale che durava da quasi tre decenni.
Fra i territori persi nel 1994 e riconquistati nel 2020, 7 distretti in precedenza controllati dalla Repubblica dell’Artsakh e parti di quella che era la Provincia autonoma del Nagorno Karabakh, assegnata a Baku in epoca sovietica. Inoltre, l’Azerbaigian torna ad avere una frontiera comune con l’Iran e ottiene un corridoio attraverso l’Armenia per accedere alla sua exclave del Nakhchivan.
La Turchia, vincitore politico della guerra dell’Artsakh
Fra i vincitori politici di questa partita è da annoverare la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, padrino dell’azione di Baku.
La politica turca non era senza rischi. Non solo si trattava di rompere uno status quo antico, cristallizzato da decenni. Il suo coinvolgimento nella guerra faceva entrare la Turchia in una tradizionale zona di influenza della Russia. Nondimeno, limitandosi a fornire armi, consiglieri militari e truppe irregolari, Ankara è riuscita ad evitare un pericoloso confronto diretto con Mosca.
La comunità internazionale non ha risparmiato dure critiche ad Ankara per la sua spregiudicatezza. Tuttavia, è incontestabile che, oltre a ridimensionare la cristiana Armenia, la vittoria azera ha consolidato il ruolo di guida dei paesi turcici della Turchia e ha rafforzato la sua influenza nel Caucaso meridionale.
La Russia resta il player principale nel Caucaso
La Russia è inizialmente rimasta guardinga. In seguito, ha scelto di non ingerirsi nel conflitto. Nondimeno, pragmaticamente Vladimir Putin ha fissato una linea rossa: i confini armeni.
Mosca è entrata in scena solo nel momento della vittoria dell’Azerbaigian, come per ricordare a tutti gli attori coinvolti che nel Caucaso è la Russia a dare le carte.
L’accordo di pace prevede infatti un ruolo-chiave per le forze armate del Cremlino, dispiegate nel Nagorno Karabakh con funzioni di peacekeeping. Inoltre, Mosca e Ankara hanno sottoscritto un memorandum d’intesa che istituisce un centro di monitoraggio congiunto russo-turco in Azerbaigian. Nondimeno, Russia e Turchia avranno un peso diverso: gli osservatori di Ankara non potranno operare sul terreno ma solo a distanza per mezzo di droni e le forze turche di peacekeeping non potranno entrare nel Nagorno Karabakh.
Un triste anniversario del genocidio
In questo 2021, in Armenia la ricorrenza del genocidio del 1915-1916 si svolge in un’atmosfera, se possibile, più cupa.
Non solo il conflitto dell’Artsakh ha spazzato via le conquiste della guerra del 1988-1994, che sembravano ormai cristallizzate. Non soltanto l’Armenia ha visto rafforzarsi il suo rivale storico Azerbaigian e, sullo sfondo, la Turchia.
Soprattutto, Erevan ha pagato il sostanziale disinteresse della collettività internazionale.
L’Armenia tra il martello turco e l’incudine russa
Da un lato, l’Armenia è ora esposta alla superiore forza del suo storico rivale, l’Azerbaigian, dietro il quale si allunga la minacciosa ombra della Turchia. Dall’altro, per cercare protezione, è costretta a guardare alla Russia.
Stante questa cornice, l’Armenia si trova oggi fra il martello turco e l’incudine russa, una posizione vulnerabile che lascia a Erevan ben poche opzioni di politica estera.
L’indifferenza europea e occidentale
E questo senza che l’impolitica Unione europea abbia saputo incidere nella crisi. A riprova che a Bruxelles e nelle capitali europee non sono ancora state ben comprese le brutali regole del gioco che governano le partite negli scacchieri strategici del mondo.
Per quanto riguarda il mancato intervento russo durante il conflitto, forse il primo ministro armeno Pashinyan paga l’essere arrivato al potere grazie ad una “rivoluzione colorata”.
Ebbene, se si considera che oggi la dipendenza dell’Armenia dalla Russia è aumentata, il riconoscimento odierno del genocidio armeno da parte degli Usa di Joe Biden appare per Erevan come una ben magra consolazione.
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