Diplomazia Italiana ha letto con attenzione il pregevole articolo dell’ambasciatore Marco Carnelos Trump’s price for saving Mohammed bin Salman: $450bn. Carnelos, che è uno dei massimi esperti italiani di affari mediorientali, fa un acuto esame della dichiarazione del presidente Trump sull’affaire Khashoggi.
Le conclusioni dell’ambasciatore sono di particolare interesse e ispirano alcune considerazioni. Sulla politica Usa in Medio Oriente la prima. Sulle lezioni da trarre in materia di politica internazionale la seconda.
Medio Oriente, gli obiettivi di Trump sono quelli tradizionali Usa
Per alcuni versi, l’approccio di Trump ai dossier mediorientali si differenzia da quello dei suoi predecessori, democratici e anche repubblicani, come George W. Bush. Per la minore carica ideologica. E, almeno per ora, per il minore ricorso allo strumento militare.
Tuttavia, ad un’attenta analisi – e la posizione assunta sul dossier Khashoggi sembra confermarlo – in Medio Oriente la diplomazia di Trump mantiene i tradizionali obiettivi di Washington:
- consolidare l’egemonia Usa e frenare il riequilibrio dei rapporti di forza globali a favore di Cina e Russia, considerate minacce strategiche;
- assicurarsi il controllo del Medio Oriente, principale serbatoio mondiale di idrocarburi. In tale prospettiva, ristabilire il proprio controllo su Iran e Iraq.
Dopo l’omicidio Khashoggi la linea degli Usa non appare destinata a cambiare
Questi obiettivi determinano la qualità e l’intensità delle relazioni degli Stati Uniti con gli attori che operano nello scacchiere mediorientale. Con quelli interni, così come con quelli esterni che hanno influenza sulle dinamiche della regione.
Dunque, a meno di cambiamenti di rotta radicali, di cui per ora non vi è segnale, la politica di Trump in Medio Oriente è in sostanziale continuità con quella dei precedenti inquilini della Casa Bianca.
Gli amici e i nemici degli Usa sono sempre gli stessi
Ecco perché, a dispetto della responsabilità diretta del principe Mohammed bin Salman – e dunque della Casa Reale Saudita – nell’omicidio Khashoggi, Washington non appare intenzionata a modificare il suo partenariato con Riad. Sono troppi gli interessi in ballo per gli Usa, politici militari ed economici.
Più in generale, non sembrano esserci le condizioni politiche per cambiamenti radicali nel sistema delle alleanze Usa in Medio Oriente, di cui Israele e Arabia Saudita sono perni strategici. Parimenti, non dovrebbero esserci disallineamenti con i principali alleati europei coinvolti nella regione, in primis la Gran Bretagna.
Analogamente, non si vede perché dovrebbe modificarsi la relazione di radicale inimicizia fra Stati Uniti e Iran. Il progressivo irrigidimento delle sanzioni americane a Teheran sta a dimostrarlo. Lo stesso discorso vale per i rapporti degli Usa con la Siria e, in generale, con tutti i governi con velleità di autonomia da Washington, sia per quanto riguarda le loro alleanze, sia per quanto riguarda le loro politiche energetiche.
Gestire la Russia, un rebus per la politica mediorientale Usa
Resta l’incognita Russia. Con il suo intervento, la Russia ha rovesciato le sorti della guerra in Siria. Washington e Mosca devono ora gestire la situazione in modo da evitare pericolose scintille che potrebbero incendiare l’area.
Il dato politico, però, è che con l’intervento in Siria la Russia si è affermata come attore-chiave in Medio Oriente. Affidabile, perché non abbandona gli alleati. Determinato nel perseguire con vigore i suoi interessi in Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale. Efficace, perché ha vinto la guerra in Siria con un intervento militare i cui strumenti non erano sproporzionati rispetto agli obiettivi.
Alla luce di questi fatti, oggi in Medio Oriente, molti possono guardare alla Russia come a un potenziale partner, anche nell’ottica di un riequilibrio dell’influenza anglosassone. Uno scenario, questo, che non può non incontrare l’ostilità degli Stati Uniti.
La narrativa mediorientale di Trump
La continuità della diplomazia mediorientale di Trump spiega perché l’inquilino della Casa Bianca continua ad alimentare una narrativa che – come osserva Carnelos – ha palese natura propagandistica, imperniata su tre punti:
- l’Iran è la causa della destabilizzazione del Medio Oriente e della recrudescenza del terrorismo;
- Arabia Saudita e Israele non hanno alcuna responsabilità nel processo di frammentazione politica e territoriale della regione;
- viene omesso ogni riferimento alle responsabilità degli Usa e degli altri paesi occidentali.
Trump avrebbe avuto buon gioco a criticare la folle politica mediorientale delle “Primavere arabe” del duo Obama-Clinton, che ha destabilizzato l’intera regione e che ha avuto enormi ripercussioni anche in aree limitrofe. Avrebbe potuto dissociarsi dalla messianica “crociata” di George W. Bush in Afghanistan e in Iraq, paesi che a distanza di ormai 17 anni e 15 anni dall’inizio delle guerre che li hanno investiti non hanno ancora trovato una soluzione stabile.
Invece non lo fa. Perché? Perché al di là della retorica e del (per ora) minore avventurismo, prevale in Trump l’idea della difesa dell’interesse americano. Può cambiare la scelta degli strumenti di politica estera, in questo caso un minore impiego della forza militare, sia diretta che per procura. Ma gli obiettivi della Casa Bianca non sono cambiati, a dispetto del cambio di inquilino.
La lezione di Trump: prima gli interessi, poi i valori
Il dato più interessante dell’analisi dell’ambasciatore Carnelos è proprio quella di ordine generale. L’ambasciatore sottolinea che quando gli interessi degli Stati Uniti entrano in contrasto con i valori americani, i primi prevalgono sui secondi.
La storia ci insegna che in realtà è sempre stato così. Al di là dei proclami solenni, dal momento in cui gli Usa già alla fine del XIX secolo si sono dati gli strumenti – prima il primato industriale, poi nei decenni successivi, quello militare – per agire da attore globale, non hanno mai esitato a promuovere in modo assertivo i loro interessi.
Diceva il presidente Usa Theodore Roosevelt, premio Nobel per la pace nel 1906, “Parla gentilmente e portati un grosso bastone; andrai lontano”.
Come interpretare la dichiarazione di Trump sul caso Khashoggi
Per alcuni versi la dichiarazione di Trump sul caso Khashoggi potrebbe essere interpretata come un messaggio al mondo: è vero che gli Stati Uniti hanno dei valori, ma sia chiaro che non esiteranno a metterli in secondo piano quando in contrasto con gli interessi americani. In altri termini, potrebbe quasi sembrare un invito agli alleati a serrare i ranghi.
Questa dichiarazione deve costituire una lezione per l’Italia e l’Europa. I fattori di divaricazione fra Europa e Stati Uniti stanno diventando sempre più palesi. In questa cornice, la dichiarazione della Casa Bianca non lascia dubbi che in caso di divergenze fra gli interessi americani e quelli europei, Washington guarderà ai suoi.
Per questo l’Italia deve individuare i suoi interessi nazionali e armonizzarli con quelli europei. Sapendo che gli Stati Uniti non vedono con favore la nascita di un’Europa-potenza: uno scenario che per gli Usa diverrebbe un incubo geopolitico se al progetto europeo venisse associata la Russia.
L’Europa deve ad ogni modo avviare un nuovo percorso con gli Stati Uniti, che passa da un atteggiamento franco e basato sugli interessi europei. Lealtà sì, ma non associazione pedissequa ad ogni iniziativa di Washington. Anzi. L’Europa deve fungere da fattore di freno per avventurismi pericolosi.
In questo senso, Diplomazia italiana guarda con preoccupazione all’evoluzione della crisi in Crimea. Nondimeno, la crisi in quella regione potrebbe essere un laboratorio per:
- elaborare una politica europea autonoma da Washington su una questione di interesse strategico per il vecchio Continente;
- sondare la reazione degli Stati Uniti a iniziative di attori terzi volte ad abbassare il livello di tensione.
“Il mondo è un posto molto pericoloso!”
È, questa, la frase con cui l’inquilino della Casa Bianca inizia la sua dichiarazione sul caso Khashoggi. Questa frase dice tutto sulla visione del mondo di Trump, fondata sul realismo politico e sull’interesse nazionale.
Al di là dell’atteggiamento muscolare, va tuttavia detto che finora Trump non si è arrischiato in imprese gravi come i suoi predecessori, i cui disastri in Afghanistan, in Iraq, in Siria e in Nord Africa sono lontani dall’aver trovato una soluzione.
Visti dall’Europa si può dunque ancora sostenere che – almeno per quanto riguarda la politica estera – l’opzione Trump resta preferibile alla Clinton, la cui pessima prova come segretario di Stato Usa resterà nei manuali di storia diplomatica.
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