La messa in stato di fermo dell’ex Presidente francese Nicolas Sarkozy per finanziamenti illeciti ricevuti dalla Libia nel 2007 non ci rallegra. Tutto sommato non si infierisce su chi morde la polvere. E poi da anni Sarkozy ha comunque un posto riservato nella discarica della storia, dove ha deciso di collocarlo il popolo francese alle elezioni presidenziali del 2012. E una seconda volta – casomai non si fosse espresso con sufficiente chiarezza la prima – alle primarie dei Repubblicani nel 2016.
Non c’è nemmeno bisogno di dilungarsi sulle risatine livide di Sarkozy contro l’Italia e i suoi legittimi governanti, ostentate a beneficio di certa stampa in occasione di un consiglio europeo. Rida ora l’ex Presidente, mentre ricorda con nostalgia la sua presidenza bling-bling e la corte dei miracoli che orbitava intorno al suo Eliseo. Rida, e intanto renda conto alla magistratura. Auguri.
Ma il punto che qui interessa è la politica estera di Sarkozy, tipico caso di scuola che prova che la diplomazia degli Stati si basa sull’interesse nazionale e la politica estera è una politica di Stato, non di governo.
Questo permette anche di fare una messa a punto su una infausta tradizione della politica estera italiana basata su assunti sbagliati e foriera di disastri diplomatici, purtroppo radicata a destra quanto a sinistra. Ci si riferisce qui all’erronea credenza che avere esponenti della propria famiglia politica al governo di altri Paesi sia un vantaggio per l’Italia. Come se la Francia – ma il discorso vale, evidentemente, per tutti i protagonisti della politica internazionale – rinunciasse di buon grado a perseguire i propri interessi a nostro vantaggio, in ragione di una pretesa affinità politico-ideologica fra i governi dei due Paesi.
I rapporti italo-francesi durante la presidenza Sarkozy sono, sotto questo profilo, esemplari. Infatti, a dispetto della circostanza che per ampia parte di quel periodo anche l’Italia fosse governata da forze conservatrici, la politica estera di Sarkozy si è distinta per una marcata anti-italianità che si è accentuata man mano che il vigore del governo Berlusconi andava affievolendosi.
Il perché è presto detto. A dispetto dell’amicizia fra i due Paesi, che è reale, e della tradizionale collaborazione fra Roma e Parigi su diversi dossier, che ha dato buoni frutti, su alcune questioni strategiche le divergenze fra Italia e Francia hanno natura strutturale e necessiterebbero di una definizione all’interno del quadro europeo. Una definizione complessa e dall’orizzonte temporale lontano, perché presupporrebbe un’armonizzazione dei reciproci interessi nazionali in campi di estrema sensibilità.
Innanzi tutto, il rapporto bilaterale. Vuoi per la tradizionale vocazione universale dei transalpini, vuoi per la nostra tarda unità nazionale, vuoi per ragioni oggettive come la circostanza che Parigi è una potenza nucleare, è un dato di fatto che la Francia intende continuare a trattare l’Italia come una sorella minore.
Questo comporta un atteggiamento quasi tutoriale che si estrinseca in un’ampia gamma di azioni con l’obiettivo di impedire un riequilibrio dei rapporti bilaterali che passi da un rafforzamento di Roma.
Ad esempio, la nota ostilità di Parigi per l’acquisizione di aziende francesi da parte di compagnie italiane (mentre il contrario è considerato naturale…). Oppure – come sostengono alcuni storici – il manovrare gruppi eversivi che fungevano da “regolatori” del livello di tensione interna dell’Italia, minandone la coesione: questo spiegherebbe perché Sarkozy, malgrado si fosse autoproclamato leader europeo di una destra “legge e ordine” e nonostante avesse sposato l’italiana Carla Bruni (o forse anche per questo…), abbia poi assunto una linea di continuità con la “Dottrina Mitterrand” di protezione dei terroristi italiani latitanti in Francia, come emerse con clamore in occasione del caso Battisti.
Per quanto riguarda gli equilibri europei, per la Francia è impensabile che il primato franco-tedesco possa essere indebolito dalla compartecipazione di un terzo incomodo. Una linea a nostro parere destinata addirittura ad irrigidirsi, tenuto conto dei nuovi rapporti di forza che la Brexit inevitabilmente genererà in Europa.
Questo spiega non solo il tutt’altro che improvvisato teatrino inscenato nel 2011 dai redivivi Stanlio e Ollio, Sarkozy e Merkel. Spiega, soprattutto, la circostanza che ogni volta che si è trattato di mettere l’Italia all’angolo in Europa, in particolare sulla questione dei conti pubblici, a dispetto delle rassicurazioni di facciata in sostanza Parigi si è sempre allineata ai falchi di Berlino, Francoforte e Bruxelles. Tanto era allineata che nel 2011 in occasione del vertice europeo di Cannes, l’Italia scoprì di avere fra i grandi un unico, inaspettato difensore in Barack Obama il quale, convinto da Berlusconi (“I think Silvio is right”), mandò all’aria il tentativo di Germania e Francia di assoggettare la nostra economia a FMI e Troika.
L’area Mediterraneo-Nord Africa è un altro teatro strategico nel quale gli interessi di Italia e Francia sono divergenti. Infatti, pur avendo Roma e Parigi un comune interesse alla stabilità della ragione, l’estensione dell’influenza di Italia e Francia nei Paesi nordafricani è un gioco a somma zero, una partita in cui le posizioni guadagnate da un giocatore sono perse dall’altro.
Si pensi alla martoriata Libia, dove la politica estera di Sarkozy ha probabilmente raggiunto il culmine dell’infamia.
Da un lato, è ragionevole pensare che Sarkozy avesse con l’intervento militare in Libia pensato di seppellire sotto una pioggia di bombe le prove che in questi giorni lo portano in Tribunale, incurante del prezzo di migliaia di morti e della disintegrazione di un Paese che svolgeva un ruolo-chiave per la stabilità dello scacchiere nordafricano e mediterraneo. Un Paese che, per quanto certamente non democratico, stava in quegli anni compiendo uno sforzo, a prezzo di importanti concessioni, per accreditarsi come un interlocutore affidabile e rientrare a pieno titolo nella Comunità internazionale.
Dall’altro, se riflettiamo sulle cause sistemiche dell’aggressione alla Libia, il pensiero non può non andare all’interesse della Francia di sostituirsi all’Italia quale principale partner del Paese e scalzare le nostre imprese, in particolare quelle del settore energetico a vantaggio delle sue. Lo stesso si può dire della Gran Bretagna, la cui complicità con l’intervento francese, tradisce la volontà di recuperare le posizioni strategiche perse in Libia negli anni ’60 del XX secolo a vantaggio dell’Italia. Aggiungiamo, con riferimento alla politica di oggi, che la Libia di Gheddafi teneva l’Europa e in particolare l’Italia al riparo dai flussi migratori africani. Questo interesse italiano ed europeo non è minimamente stato considerato dalla Francia, che ha ritenuto di perseguire i propri interessi in modo spregiudicato, lasciando ad altri la gestione dei danni collaterali.
Prima o poi, la classe politica italiana dovrà prendere atto del primato dell’interesse nazionale nel funzionamento del sistema internazionale. E, prima o poi, la dirigenza della Farnesina dovrà farsi coraggio e consigliare con più convinzione i nostri governi: l’idea che vi possa essere un’automatica comunanza di interessi tra leader provenienti dallo stesso schieramento politico europeo è semplicemente un miraggio.
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