Siria, la vittoria di Assad impone nuovi equilibri

Siria, verso una vittoria mutilata di Assad: se nessuno degli attori ha interesse a incrementare la tensione, sussistono variabili politiche e di sicurezza che potrebbero complicare il quadro.

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Siria vittoria

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La guerra civile in Siria si avvia a una lunga, lenta e difficile conclusione. E il vincitore Assad dovrà costruire un nuovo equilibrio.

La guerra civile in Siria, innescata nel 2011 da una protesta spontanea nella città meridionale di Deraa e poi stravolta e dominata da dinamiche regionali ed internazionali, sta volgendo al termine. La fase conclusiva sarà lenta. Le ostilità non cesseranno quest’anno. Probabilmente si protrarranno ancora per tutto il 2019.

Dal punto di vista militare e strategico Bashar Assad ha già vinto. Tuttavia, la Siria è oggi un paese devastato e mutilato territorialmente.

Siria, Assad verso una vittoria mutilata

La parte nord-orientale resta infatti ancora appannaggio delle forze curde del Pyd/Pkk. L’enclave orientale di Tanf, lungo il confine con l’Iraq, di quelle militari Usa. In quest’area si rifugiano ancora gli irriducibili dell’Isis che di recente hanno compiuto un efferato massacro di civili drusi a Suweida.

nord, verso la Turchia, resiste l’enclave di Idlib, controllata dalle residue forze jihadiste che hanno combattuto negli ultimi anni. Idlib beneficia di una sorta di tutela da parte di Ankara, che ha a sua volta occupato diverse porzioni di territorio siriano a ridosso del proprio confine meridionale.

Tuttavia, è la zona delle alture del Golan, lungo il confine siro-israeliano, quella che negli ultimi mesi ha destato le maggiori preoccupazioni e frizioni, con ripetuti raid israeliani. Lo Stato ebraico appare seriamente preoccupato che tra le forze regolari siriane che hanno riconquistato l’area si annidino anche elementi di Hezbollah e delle Guardie Rivoluzionarie iraniane (Irgc).

Israele pretende un diritto di veto sull’eventuale presenza di Hezbollah e Irgc nel settore siriano della linea di demarcazione fissata dall’Onu nel 1974 dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973. Lo Stato ebraico ha però il problema di come far valere il veto con strumenti diversi da quelli utilizzati finora, ossia i bombardamenti aerei.

Negli ultimi anni, approfittando del conflitto in Siria, nel Golan siriano si erano insediate diverse unità combattenti dell’Isis e di Al Qaeda, circostanza che in apparenza non avrebbe determinato particolare inquietudine nei vertici militari israeliani. Preoccupazione che si è invece subito profilata quando, sull’onda della vittoria militare di Assad, nel Golan è stata di recente segnalata la presenza di unità dell’Hezbollah e dell’Irgc.

Netanyahu ha visitato Mosca con inusitata frequenza negli ultimi tempi, proprio con la speranza di suscitare nella Russia comprensione verso le esigenze di sicurezza di Israele. Non è chiaro se il premier israeliano abbia ottenuto qualche assicurazione da Putin, ritenuto – forse esageratamente – l’unico arbitro degli equilibri politico-militari in Siria.

L’impegno della Russia è indispensabile, ma non sufficiente

Quest’ultimo aspetto merita un minimo di chiarezza: che la Russia abbia assunto una posizione di primus inter pares negli equilibri politico-militari in Siria è indubbio. Che tale status le abbia anche conferito la capacità di determinare l’entità e il posizionamento delle forze iraniane e degli Hezbollah libanesi nel paese è assai meno certo.

La presenza di queste formazioni paramilitari risponde a dinamiche locali, sciite, consolidate nel tempo, sulle quali né Mosca, né Washington, né tantomeno Gerusalemme potranno influire più di tanto. In altri termini, l’unico modo per Israele per non avere Hezbollah e Irgc alle porte è quello di occupare militarmente il Golan siriano, con tutte le incognite che ne deriverebbero. Lo strumento aereo, da solo, non sarebbe sufficiente, e questo gli strateghi militari israeliani lo sanno.

Siria, Iran, Hezbollah da una parte e Israele dall’altra potrebbero, quindi, doversi adattare ad un precario equilibrio nel crocevia territoriale che interessa la parte meridionale del Libano, quella settentrionale di Israele e il Golan. È assai difficile che le due parti riescano a prevalere risolutivamente l’una sull’altra. Israele mantiene una superiorità militare e tecnologica indiscussa. Nondimeno, come già evidenziato dal conflitto con Hezbollah in Libano nel 2006, questa supremazia spesso stenta ad essere decisiva in caso di conflitto. Tale difficoltà potrebbe risultare addirittura accentuata dall’ulteriore esperienza militare che Hezbollah e l’Irgc hanno accumulato negli ultimi anni nel teatro siriano.

Secondo ripetute indicazioni dell’intelligence israeliana, la minaccia missilistica di Hezbollah è decisamente cresciuta. Lo Stato ebraico – per storia, entità e cultura – non può comprensibilmente permettersi buchi difensivi che determinino perdite eccessive nella propria popolazione.

Se le stime di Israele sull’arsenale missilistico di Hezbollah – 100.000 tra missili e razzi – si rivelassero veritiere, anche una precisione del 90-95% dello scudo missilistico israeliano Iron Dome potrebbe rivelarsi intollerabile. Nel conflitto del 2006, nonostante i massicci bombardamenti israeliani sulle postazioni libanesi di Hezbollah, le salve missilistiche lanciate dal Partito di Dio non diminuirono mai di intensità per tutta la durata delle ostilità. Se anche il Golan siriano dovesse trasformarsi in una piattaforma di lancio, il problema securitario di Israele si complicherebbe significativamente.

La posizione di Israele è indebolita dalla scommessa persa su Assad

Israele, dopo un’iniziale ed intelligente neutralità, ha purtroppo compiuto un errore di calcolo nel conflitto siriano, puntando sulla sconfitta di Assad. L’esito del conflitto è stato diverso da quanto auspicato. Gli equilibri sono mutati, e, apparentemente, non in senso favorevole allo Stato ebraico.

La tradizionale ed indiscussa superiorità aerea israeliana su quella parte del cielo mediorientale è ora soggetta ad una sorta di placet preventivo russo.

Oltre alle tradizionali capacità di combattimento asimmetrico, Hezbollah e Irgc hanno affinato anche la loro capacità di utilizzare i droni.

Infine, la Russia, nonostante il corteggiamento di Netanyahu, anche a causa della politica Usa nello scacchiere, propende maggiormente per un allineamento dei propri interessi con Siria, Iran e Hezbollah.

La motivazione di fondo è che, contrariamente all’analisi israeliana, la Russia considera la galassia dell’estremismo sunnita di matrice salafita-wahabita (Isis, Al Qaeda, ecc.) come la principale minaccia e ritiene gli sciiti (Hezbollah, Irgc, ecc.) validi alleati per contrastarla.

Naturalmente, ciò non significa che Putin darebbe luce verde o sosterebbe disegni ostili verso Israele. Come di consueto, l’atteggiamento del Cremlino sarà pragmatico, ma sarà anche influenzato, e in modo non marginale, dall’atteggiamento israeliano e americano sulla questione palestinese.

È possibile tuttavia – e sarebbe auspicabile – che gli attori in causa non abbiano un interesse immediato ad incrementare le tensioni.

Iran ed Hezbollah. In particolare, potrebbero necessitare di una tregua dopo l’intenso sforzo profuso nel conflitto siriano negli ultimi anni, senza dimenticare i diversi altri fronti regionali che continuano ad impegnarli. Lo stesso vale per Israele per quanto concerne la spina nel fianco di Gaza.

Esistono tuttavia due variabili che potrebbero vanificare questa aspettativa.

  1. La prima è la crescente offensiva sanzionatoria che l’amministrazione Trump sta adottando contro Teheran, dopo la denuncia del Jcpoa: un blocco economico che, per il diritto internazionale, potrebbe arrivare a configurarsi come un vero e proprio atto di guerra. Un’escalation di questa natura potrebbe avviare una dinamica difficilmente controllabile, con ripercussioni negative in Iraq, ma anche nel Libano meridionale e sulle alture del Golan.
  2. La seconda verte proprio sulla soluzione del contenzioso israelo-palestinese, qualora Washington dovesse presentare il cosiddetto deal of the century da tempo annunciato da Donald Trump. Il piano statunitense, secondo alcune indiscrezioni, non lascia presagire nulla di confortante. Si teme infatti che potrebbe assumere la forma di un brutale diktat filo-israeliano ai danni dei legittimi diritti dei Palestinesi – supportati da diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza Onu e dal diritto internazionale – e che potrebbe innescare nuove tensioni ed una nuova Intifada.

La prima legge di Murphy afferma che “se qualcosa può andar male, andrà male”. Il Medio Oriente, purtroppo, appare la principale area del pianeta dove questo paradosso pesudo-scientifico a carattere ironico ha trovato un puntuale riscontro nel corso degli anni, e con risvolti tragici.


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