Attacco agli impianti petroliferi dell’Arabia Saudita: game changer negli equilibri regionali

L'attacco agli impianti petroliferi di Abqaiq può essere il segnale di un riequilibrio dei rapporti di forza in Medio Oriente. Mentre gli Usa e i loro alleati si scoprono drammaticamente indifesi di fronte alla sfida della guerra asimmetrica, davanti alle sanzioni l'Iran non piega la testa ma reagisce con una politica più muscolare. Se vuole recuperare l'iniziativa nell'area, la politica estera americana deve trovare una nuova coerenza.

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attacco impiantiL’attacco agli impianti petroliferi sauditi di Abqaiq, rivendicato dai guerriglieri Houthi yemeniti di Ansarullah, potrebbe rivelarsi un significativo game changer nella contrapposizione tra Iran e il composito fronte di paesi che va dagli Stati Uniti ad alcuni membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, passando per Israele.

Attacco agli impianti petroliferi sauditi, segnale di un cambio degli equilibri in Medio Oriente

Gran parte dell’attenzione mediatica e politica si è superficialmente soffermata sugli aspetti tecnici. Vale dire sui mezzi utilizzati – droni e/o missili da crociera – e l’origine geografica dei lanci (Yemen, Iraq o Iran).

Si tratta di aspetti in larga parte irrilevanti. A prescindere dalle considerazioni di stampo “orientalista”, del tipo che gli Houthi non avrebbero saputo o potuto condurre un’azione militare così complessa e precisa (in quanto arabo-musulmani ovviamente), a dispetto delle evidenze tecniche finora fornite (invero scarse) e nonostante la rivendicazione di Ansarullah, è prevalsa la narrativa che si sia trattato di un’azione ispirata o addirittura condotta direttamente dall’Iran. O comunque riconducibile agli interessi e alla politica del regime degli Ayatollah.

Osservatori e media non colgono nel segno

La stragrande maggioranza degli osservatori e dei mainstream media hanno largamente ignorato una circostanza. Ossia che gli Houthi avrebbero potuto concepire e condurre l’azione come rappresaglia per i sistematici e massici bombardamenti che l’aviazione saudita conduce da anni nella sua fallimentare campagna militare nello Yemen – e che hanno provocato perdite ingentissime ed una gravissima crisi umanitaria.

Appare quindi più utile soffermarsi su alcune preliminari considerazioni. E attirare l’attenzione su alcuni interrogativi, nonché sul significato più profondo, politico, economico e militare dell’episodio.

L’attacco di Abqaiq mette a nudo diversi dati politici, militari ed economici

1. Abqaiq, la più importante infrastruttura petrolifera saudita, non era protetta adeguatamente. O, addirittura, non lo era affatto.

2. Da questa considerazione deriva un legittimo interrogativo, soprattutto per il contribuente saudita. Come vengono spese le centinaia di miliardi di dollari Usa che il Regno utilizza ogni anno per l’acquisto di armamenti, in prevalenza statunitensi? Gli apprezzabili impulsi riformisti manifestati dall’illuminato, giovane principe della corona, Mohammed bin Salman, forse potrebbero dispiegarsi anche su questa imbarazzante situazione varando un severo auditing.

Il dispositivo militare e di sorveglianza Usa non ha funzionato

3. Gli Usa hanno subito dato scarso credito alla rivendicazione degli Houthi. E hanno spostato subito l’attenzione sull’ipotesi che esso provenisse dall’Iraq (milizie sciite filo-iraniane) o addirittura dallo stesso Iran. Sull’Iraq, l’amministrazione Usa ha dovuto poi fare marcia indietro, autorizzando il premier iracheno, Abdel Mahdi, a diramare un comunicato su una sua telefonata con il Segretario di Stato Pompeo nella quale quest’ultimo avrebbe escluso che l’offensiva avesse avuto origine dal territorio iracheno. Qualora poi gli Usa dovessero produrre prove di un attacco condotto direttamente dall’Iran attraverso il Golfo Persico, si troverebbero comunque in una situazione imbarazzante. Washington dovrebbe infatti spiegare come sia possibile che il suo poderoso apparato militare e di sorveglianza, oltretutto in uno dei bracci di mare più controllati al mondo, non sia stato capace di fermare l’attacco.

4. Naturalmente, il Presidente Putin non si è lasciato sfuggire l’occasione per vestire i panni dell’abile piazzista di armamenti e tecnologie russi. Oltretutto con commenti beffardi che hanno invitato i sauditi all’acquisto di sistemi difensivi di Mosca, asseritamente più efficaci. Occorre tuttavia riconoscere che, in questa circostanza, il premio della perfida ironia se lo sono accaparrato alcuni commentatori iraniani che hanno provocatoriamente invitato l’Arabia Saudita ad acquistare sistemi difensivi iraniani. Non mancando di evidenziare che di recente questi sono stati in grado di abbattere droni assai più sofisticati e costosi. Come quelli americani.

La capacità di riserva petrolifera saudita è in fumo

5. La tanto decantata capacità di riserva petrolifera saudita, la principale al mondo – o l’unica, secondo alcuni, alla luce dei disastri in Venezuela e in Libia e delle sanzioni all’Iran che consiste nella possibilità di sopperire immediatamente a improvvise carenze nella produzione mondiale di greggio, appare evaporata nell’attacco. Quest’ultimo in un solo colpo ha conseguito due obiettivi. Da un lato ha dimezzato la produzione di greggio del Regno. Dall’altro, ha costretto gli Usa a mettere a disposizione la loro riserva strategica – circa 700 milioni di barili, equivalente all’intero consumo americano di un mese – per attenuare gli effetti dell’attacco sui mercati. 

6. L’attacco ha sollevato nuovi dubbi su quello che si profila come il più grande collocamento in borsa della storia. Quello della compagnia petrolifera saudita Aramco, più volte annunciato, rinviato e comunque sempre controverso, che la corte saudita vorrebbe rilanciare con l’obiettivo di raggiungere l’astronomica ed irrealistica quotazione di 2.000 miliardi di dollari Usa. A titolo di paragone, Apple e Microsoft sono valutate ciascuna circa la metà. Non sono in pochi ad interrogarsi sulle effettive probabilità che tale operazione vada in porto. E con questa entità finanziaria. Sono infatti in molti a chiedersi quanti sarebbero i sottoscrittori di capitale di una compagnia che malgrado sia quella che genera i maggiori profitti al mondo – 111 miliardi di dollari Usa – presenta profili di insicurezza così marcati per quanto concerne i propri assets principali.

Abqaiq, un “inside job”?

7. Poco rilievo è stato attribuito alla rivendicazione di Ansarullah, dove fa riferimento a “free and honourable men inside the Kingdom”. Uomini che l’avrebbero asseritamente aiutata a portare a termine la spettacolare operazione. Un’ipotesi che dovrebbe sollevare non pochi interrogativi sulle capacità degli apparati di sicurezza sauditi di assicurare il controllo del territorio. Addirittura, alcuni commentatori regionali, solitamente bene informati, hanno identificato questi cosidetti “free and honourable men” non come semplici fiancheggiatori degli Houthi riconducibili alla vasta minoranza sciita residente e oppressa in Arabia, bensì come esponenti di alto livello degli apparati sauditi.

E’ possibile azzardardare qualche preliminare conclusione.

La politica dell’amministrazione Trump di massima pressione verso l’Iran non ha finora sortito effetti significativi. Anzi, sinora l’effetto è stato di spingere l’Iran sulla via di una politica di ritorsioni, che sembra apparentemente più efficace. Atti di sabotaggio di petroliere transitanti nello stretto di Hormuz o ormeggiate nel Golfo Persico ricondotti all’Iran avrebbero infatti indotto gli Emirati Arabi Uniti ad inviare ben quattro delegazioni a Teheran nel tentativo di allentare la tensione. E’ inoltre un fatto che sempre gli Emirati abbiano avviato il ripiegamento dallo Yemen.

Le sanzioni non hanno piegato l’Iran, ma ne hanno alimentato aggressività e ritorsioni

Non va poi dimenticato che nei mesi scorsi l’Iran ha ripetutamente sostenuto che se gli fosse stato impedito di esportare il proprio greggio, si sarebbe adoperato per estendere l’impedimento a tutti i paesi del Golfo Persico sostenitori della linea dura statunitense. L’attacco di Abqaiq sembrerebbe perfettamente coerente con tale annuncio.

Questo non significa che le sanzioni americane non stiano danneggiando Teheran. Al contrario, in Iran gli effetti di queste misure si avvertono significativamente. Tuttavia, a quanto pare, non fino al punto da spingere la sua leadership ad adottare un atteggiamento più cedevole. Paradossalmente, ma forse nemmeno tanto, le sanzioni stanno spingendo il regime degli Ayatollah ad aumentare la sua aggressività.

Alla coerenza dell’Iran non sembrerebbe corrispondere finora quella degli Usa. Washington, dopo aver sbandierato per decenni il proprio interesse vitale nella salvaguardia del Regno saudita, dinanzi al più importante attacco mai sferrato all’industria petrolifera del paese –  paragonabile come magnitudo all’assalto alla Grande Moschea della Mecca avvenuto nel 1979 – si sono per ora limitati a un lieve inasprimento delle sanzioni e a un modesto dispiegamento militare.

Trump, un presidente pacifista?

Invece che denotare incoerenza, questa reazione sarebbe la spia del fatto che Trump potrebbe essere il presidente più pacifista che gli Stati Uniti abbiamo mai espresso dai tempi di Jimmy Carter. Lo vedremo. Tuttavia, Trump dovrebbe rapidamente togliersi dalla testa di poter concludere, nel tempo che gli resta fino alle elezioni del 2020, un eventuale nuovo accordo con l’Iran da brandire come un successo della sua politica. L’Iran non glielo concederà, non può permetterselo. 

Date queste premesse, le chances di un incontro Trump-Rouhani a margine della prossima Assemblea Generale dell’Onu sembrano davvero esigue. Benché di questi tempi non ci si dovrebbe sorprendere più di nulla, sarebbe alquanto difficile per il secondo stringere la mano all’uomo che di recente ha deciso l’affronto di inserire nella lista delle personalità iraniane sanzionate il leader supremo, Ayatollah Ali Khamenei.

Trump dà l’impressione di essere alla ricerca di una photo opportunity da spendere in campagna elettorale. Di qui forse il goffo tentativo attribuito a Trump di intrufolarsi nel recente bilaterale Macron-Zarif a latere del G7 di Biarritz. La leadership iraniana non sembra animata da analoghi pruriti mediatici. Al contrario, vista la facile tendenza statunitense a cadere vittima di rappresentazioni disorte della realtà, a Teheran nessuno aspira ad essere additato – come già accaduto alla Russia, e in parte alla Cina – come complice nella manipolazione del voto democratico che verrà espresso nel 2020 dal popolo americano.

La politica estera americana deve recuperare la sua coerenza

L’incoerente triplice politica che gli Usa hanno adottato fino a qualche settimana fa verso l’Iran sembra aver perso una componente importante con il licenziamento del Consigliere per la Sicurezza Nazionale Bolton, che puntava all’obiettivo più ambizioso e traumatico: il cambio di regime a Teheran.

Ora ne resta in piedi una duplice. Quella di Donald Trump che si prefigge di migliorare l’accordo nucleare siglato nel 2015 avvalendosi della “massima pressione” delle sanzioni. E quella di Mike Pompeo, che invece punta a cambiare la linea dell’Iran, ignorando tuttavia- o fingendo di farlo – che non si può cambiare l’attuale comportamento di Teheran senza cambiare il suo regime.

Con l’irruzione in scena dell’amministrazione Trump all’inizio del 2017 è ritornata spesso ad echeggiare la famosa espressione secondo cui gli Stati Uniti adottano la decisione giusta solo dopo aver provato tutte quelle sbagliate”. C’è solo da augurarsi che queste ultime siano prossime all’esaurimento.


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