Strumenti del pensiero: Clausewitz, “Della guerra”

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Spazzando via l’Ancien Régime, la Rivoluzione francese e l’avvento di Napoleone hanno anche prodotto un cataclisma nella condotta della guerra. Questa, da scontro per questo o quel confine, diventava una lotta potenzialmente mortale, giacché metteva in gioco la vita e il futuro delle nazioni. Questo mutamento è l’oggetto dell’indagine di Karl von Clausewitz, generale e teorico militare prussiano.

Con “Della guerra” Clausewitz pensa il rapporto fra politica e guerra

Con l’Ancien Régime, la guerra era limitata. Un duello fra soggetti che si riconoscevano reciproca legittimità. Lo stesso sistema internazionale, nato sulle rovine della Guerra dei Trent’anni nel XVII secolo e fondato sullo ius publicum europaeum, era strutturato per limitare l’azione degli Stati. In questa cornice, gli eserciti erano strumenti delicati, da usare con misura, non essendo facile sostituire le perdite.

Con la Rivoluzione francese, Stato e politica cambiano natura. Diventano di popolo. La Rivoluzione libera un’energia enorme, quella delle masse, che rinvigorisce la potenza dello Stato.

“la guerra di comunità – nazioni intere, e specialmente nazioni civili – nasce sempre da una situazione politica e vien provocata solo da uno scopo politico”

Il conflitto fra Stati, di conseguenza, diventa uno scontro totale che porta la tensione all’estremo. Le entità politiche si giocano l’esistenza e conducono una guerra “giusta” contro un nemico “ingiusto”. La leva di massa consente alla Francia di mettere in campo un numero maggiore di soldati rispetto ai rivali e di rimpiazzare le perdite, permettendo all’autorità politica di arruolare soldati in proporzioni mai viste sino ad allora.

La reazione alla Rivoluzione e alla sua onda lunga fu l’istituzione della leva in tutta Europa. Per affrontare Napoleone e infine sconfiggerlo, le potenze della coalizione antifrancese furono costrette ad adottare il modello militare napoleonico.

Da quel momento in poi – questa l’intuizione di Clausewitz – ogni guerra potrà potenzialmente essere totale, perché lo Stato ha appreso a maneggiare l’energia del popolo. È, questo, il concetto clausewitziano di guerra assoluta, caratterizzata dalla possibilità dell’ascesa agli estremi della violenza: fenomeno tanto più probabile quanto più esistenziale sarà lo scopo politico del conflitto. La guerra assoluta è un concetto astratto. Il punto è che, con il cambiamento di natura della politica, che diventa esistenziale, ogni guerra diventa potenzialmente assoluta.

E, nondimeno, per Clausewitz la guerra non vive di vita propria. La guerra assoluta non è l’esito meccanico di ogni conflitto. Anzi, non lo è quasi mai. Qui sta la grandezza di Clausewitz, l’aver compreso la guerra come atto politico per conseguire degli obiettivi politici.

La guerra come atto politico e, quindi, governabile

“La guerra non è dunque solamente un atto politico, ma (…) un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”.

Questo ad esempio spiega perché in Siria, malgrado l’intensità e la crudeltà dei combattimenti, Stati Uniti, Russia e Israele stanno cercando di governare il conflitto. Questo con due obiettivi:

  • evitare un confronto diretto fra di loro, le cui ripercussioni sarebbero imprevedibili;
  • moderare l’attività di altri attori proxy, quali l’Iran e Hezbollah.

Clausewitz ha intuito il nesso politica-guerra come un continuum. Non vi è cesura fra politica e guerra. La guerra è una forma della politica, una sua manifestazione. Lo è perché le logiche che ne sono alla base sono politiche, non militari. Se la tattica è un’attività militare – ossia specialistica – questo non significa che la guerra sia un mero strumento. L’entrata in guerra, l’intensità della guerra, la strategia di guerra, gli scopi di guerra sono tutte scelte che pertengono alla politica. Strumento sono semmai le forze armate quando la politica assume la forma di conflitto, e la diplomazia.

E tanto la guerra è un atto politico, che l’azione politica continua anche dopo lo scoppio del conflitto: “Se consideriamo ora che la guerra procede da uno scopo politico, è naturale che questo motivo primo che le ha dato vita continui a costituire elemento precipuo per la sua condotta. Ma non perciò lo scopo politico assume il carattere di un legislatore dispotico: deve adattarsi alla natura del mezzo, donde risulta che sovente esso si modifichi molto profondamente; ma è pur sempre l’elemento da tenersi soprattutto in considerazione. Così, la politica si estrinseca attraverso tutto l’atto della guerra, esercitando su questa un influsso continuo”.

Quindi, “appena il dispendio di forze diviene sì grande che il valore dello scopo politico non lo compensi più, tale scopo deve essere abbandonato, e deve conseguirne la pace”.

La guerra si vince politicamente

È vero che l’escalation in guerra è un possibilità sempre presente. Ma questa spirale non nasce da una logica militare. Il fattore determinante è quello politico. La vittoria deve essere prima politica. La guerra ha per scopo l’imporre la propria volontà a un nemico:

“La guerra è (…) un atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà”.

Per raggiungere lo scopo si possono impiegare tutti i mezzi militari, tuttavia è la politica che introduce la totalità, ma solo se necessario ai propri fini. Le guerre si vincono politicamente, non militarmente. Si possono distruggere le forze del nemico, se ne può occupare il territorio, ma

“la guerra (…) non può considerarsi esaurita fino a che anche la volontà del nemico non sia domata”

Di converso, una volta che il nemico si è piegato alla nostra volontà, proseguire le operazioni belliche è politicamente insensato: “la guerra non ha dunque bisogno di essere perseguita fino all’atterramento completo di uno dei belligeranti”.

Ad ogni modo – avverte Clausewitz – per quanto governabile, in quanto fenomeno umano la guerra non è interamente razionale. Essa è anche legata alla psicologia sociale, all’animo dell’uomo, alla sua razionalità così come alle sue passioni, al substrato morale delle nazioni. Vi sono in essa elementi di imprevedibilità legati alla “nebbia della guerra”, alla carenza di informazioni e agli errori di calcolo o di percezione, tanto dei militari quanto dell’autorità politica:

“La guerra non solo rassomiglia al camaleonte perché cambia di natura in ogni caso concreto, ma si presenta inoltre nel suo aspetto generale, sotto il rapporto delle tendenze che regnano in essa, come uno strano triedro composto: 1. dalla violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto; 2. del giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il caratteri di una libera attività dell’anima; 3. della sua attività subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione. La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero e al suo esercito, la terza al governo”.

Per questo, se è vero che la guerra è governabile, non è questo un dato da dare per scontato. Le sue dinamiche dipendono dal triedro popolo-condottieri-governo. Chi dà avvio ad una guerra sa come la inizia e ha fatto i suoi piani. Nondimeno, nessuno può dirsi certo della direzione che il conflitto prenderà, né può interamente pronosticarne l’esito.

In questo senso, l’escalation della tensione fra paesi anglosassoni e Russia ha profili inquietanti. In particolare per quanto riguarda l’estensione dell’influenza occidentale in Ucraina, porta d’accesso al ventre molle della Russia. Preoccupa perché più ci si avvicina a interessi essenziali di altri paesi, più questi si sentono minacciati. E più si rischia che la situazione sfugga di mano.

In ultima analisi Clausewitz spiega che la politica estera non può a priori escludere l’opzione della guerra. Un esito non certo auspicabile. Un’eventualità, semmai, più o meno remota a seconda dei tempi e delle circostanze. Ma pur sempre un’eventualità.

E visto che le circostanze dipendono anche dall’azione degli altri Stati, l’Italia dovrebbe sempre tenere a mente la difesa della sovranità serve per non cadere sotto l’influenza di potenze i cui interessi nazionali e obiettivi politici possono divergere dai nostri.


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