Riceviamo – e volentieri pubblichiamo – un’analisi dell’Ambasciatore Marco Carnelos in replica al recente articolo “Lettera di Di Battista, l’immaginario della politica estera M5S”.
—–
Caro Direttore,
gli strascichi politico-diplomatici determinati dalla pandemia da coronavirus si stanno intensificando come testimoniato dalle forti prese di posizione dell’amministrazione Trump (da ultimo del segretario di Stato, Mike Pompeo) contro le presunte responsabilità della Cina sull’origine e la diffusione globale del contagio. La cautela è d’obbligo poiché finora gli Usa non hanno condiviso evidenze conclusive asseritamente raccolte dalla loro intelligence, la quale peraltro non sembra avere una posizione univoca, e, soprattutto, perché alcuni sfortunati precedenti storici (Iraq) suggerirebbero di non attribuire una credibilità immediata ed automatica alle posizioni espresse dal governo degli Stati Uniti d’America.
Considerato il bassissimo livello raggiunto dal dibattito su tali questioni (in Italia e altrove), mi auguro che questa prudenza non venga equiparata all’istante come una militanza pro-cinese; vista la posta in gioco, si tratta solo di un metodo ragionevole per affrontare seriamente una questione di crescente rilevanza con implicazioni più che significative.
Un tema centrale, la collocazione internazionale dell’Italia
Diplomazia Italiana, prendendo lo spunto dal “manifesto” di politica estera pubblicato recentemente dall’On. Alessandro Di Battista sul Fatto Quotidiano, ha offerto il proprio pregevole parere sulla questione che ruota su un tema di grande attualità: il collocamento internazionale dell’Italia. Negli ultimi giorni, sia il presidente del Consiglio Conte, che i ministri Di Maio e Amendola hanno offerto il loro autorevole parere sul crescente dibattito relativo alla collocazione internazionale del nostro paese e su eventuali importanti decisioni che l’Italia potrebbe essere chiamata a prendere al riguardo.
Dalla primavera dell’anno scorso, in occasione della visita del presidente cinese Xi Jingping e del Memorandum d’Intesa che il Governo Conte 1 firmò con la Cina in quell’occasione in merito alla Belt and Road Initiative, il dibattito italico sulla questione è andato progressivamente intensificandosi con riferimenti al 5G, la cyber-security, il controllo di alcune nostre infrastrutture (porti di Genova e Trieste), l’Intelligenza Artificiale, possibili acquisizioni ostili di nostri assetti industriali pregiati, ecc.
Il dibattito politico e mediatico italiano rischia di essere fuorviante
Naturalmente, le conseguenze del coronavirus hanno ulteriormente alimentato le polemiche. A giudicare da quello che scrivono alcune testate giornaliste e quello che alcuni esponenti politici dichiarano l’Italia sarebbe sul punto di modificare radicalmente la propria collocazione internazionale sempre più attratta dalle presunte sirene cinesi.
Un dibattito molto eterodiretto, alimentato da legioni di analisti e commentatori che sovente diventano dei veri e propri megafoni di posizioni espresse oltre Atlantico, che è anche scomposto, eccessivamente allarmistico, estremamente emotivo e ondivago basato molto su percezioni e rappresentazioni e meno sulla realtà e i fatti; il tutto accompagnato da memoria storica e nozioni di geopolitica scarsissime che caratterizzano molti opinionisti autoreferenziali nostrani che si gettano a capofitto sulla questione, per non parlare di ampi settori della nostra classe politica, sia nella maggioranza che nell’opposizione.
Caro Direttore,
spero che Lei ed i lettori di Diplomazia Italiana mi perdonerete se oso affermare che la questione del collocamento internazionale dell’Italia non si pone; non è in discussione, né può esserlo. Il nostro paese alcuni decenni fa ha effettuato due scelte fondamentali di politica estera, quella Atlantica nel 1949 e quella Europea nel 1957, entrambe sono si sono rivelate corrette sia dal punto di vista politico che per quanto attiene ai valori fondamentali della nostra Costituzione. Non vi sono motivi validi per rimetterle in discussione e, quindi, tutto questo allarmismo appare oltremodo esagerato.
Difficile pensare che l’Italia possa cambiare il suo quadro di alleanze
Benché negli ultimi anni – come ho sostenuto in un precedente articolo da Lei gentilmente ospitato – le principali, nonché reali, minacce alla sicurezza del nostro Paese abbiano avuto origine da iniziative – più o meno maldestre, più o meno deliberate – di paesi nostri alleati o partner, ritengo che queste non giustifichino quel mutamento del nostro collocamento internazionale che si intravede nelle prese di posizione dell’On. Di Battista, anche se alcune analisi operate da quest’ultimo non sono del tutto prive di fondamento.
Come la sua pubblicazione ha peraltro giustamente rilevato, anche se lo volesse l’Italia risulterebbe poco credibile in eventuale siffatto tentativo oltre, probabilmente, aggiungerei, a non possedere gli attributi politici, culturali se non addirittura antropologici per intraprenderlo e portarlo a termine.
Il problema che intendo qui sollevare non consiste tanto nel collocamento internazionale del nostro Paese, che, lo ripeto, non si discute, ma, piuttosto – mi perdoni il gioco di parole – come esso si collochi nel suo attuale collocamento.
Più che dove collocarsi, l’Italia dovrebbe ripensare al come collocarsi, all’atteggiamento da tenere
Ovvero l’atteggiamento tenuto dall’Italia all’interno dei due grandi consessi, quello atlantico e quello europeo, con una serie di interrogativi: è possibile tutelare meglio il nostro Paese, i suoi interessi, restando comunque all’interno dei due pilastri fondamentali della nostra collocazione internazionale? È possibile uscire dallo schema logico derivante dalla tipica, demenziale, mentalità binaria secondo cui criticare alcune scelte e politiche maturate nell’ambito di questi due pilastri equivale automaticamente a produrre gravi lacerazioni e a collocarsi fuori da questi ultimi? È possibile invocare al loro interno alcune riflessioni che in buona fede mirano a rafforzarne la coesione interna e la coerenza esterna che permettano di affrontare meglio le molteplici sfide che li impegnano e li impegneranno nel futuro alquanto incerto che si paventa in questo drammatico inizio del XXI secolo?
Mi soffermerò soltanto sul pilastro atlantico dal momento che su quello europeo il dibattito è divenuto talmente tossico, disinformato e pretestuoso da non presentare, temo, margini di recupero.
Parlare di pilastro atlantico significa essenzialmente l’insieme delle nostre relazioni con gli Stati Uniti d’America. Non è questa la sede per rievocare alcuni episodi significativi che hanno contrassegnato le nostre relazioni con Washington, da Sigonella al Gruppo di Contatto sui Balcani passando per il dramma del Cermis, dalla vicenda Sgrena in Iraq alla Libia, dalle relazioni con la Russia di Putin a quelle con la Cina; parto dal presupposto che i lettori di Diplomazia Italiana le conoscano e osservo preliminarmente che in un’Alleanza che ha più di settanta anni tensioni ed incomprensioni possano essere più che normali.
Il problema è il servilismo della classe politica e diplomatica italiana
Il problema di fondo è che l’atteggiamento della classe politica italiana (ancor più di quella diplomatica!) nei confronti degli Stati Uniti, con rare eccezioni, è stato sempre quello di un inutile appiattimento talvolta sfociato in imbarazzanti manifestazioni di servilismo che non hanno arrecato alcun beneficio al nostro paese e che, peraltro, non sono mai state né richieste né, tantomeno, pretese dai nostri alleati d’oltre Oceano.
Nelle frequenti circostanze in cui nel nostro paese si insedia un nuovo governo, dopo qualche ora parte ritualmente uno psicodramma politico nazionale che consuma i membri dell’esecutivo, la maggioranza politica che lo sostiene, l’opposizione che lo contrasta, i ranghi più profilati della nostra diplomazia tutti echeggiati dalla nostra classe giornalistica, mi riferisco alla fatidica telefonata di congratulazioni del presidente degli Stati Uniti. Più questa tarda e più la tensione aumenta e, sistematicamente, il circo politico-mediatico nostrano inizia a alimentare un preoccupato dibattito sulle possibili interpretazioni di tale omissione. Può essere preso sul serio un paese che si lascia andare a tali psicodrammi?
L’imbarazzante psicodramma dell’attesa delle congratulazioni dalla Casa Bianca
Da decenni intere schiere di nostri esponenti politici, a prescindere dal colore politico, hanno sognato e quando possibile utilizzato spezzoni di frasi dei più anonimi e oscuri portavoce delle numerosissime articolazioni del potere statunitense per accreditare il loro potere e consenso politico e imbarazzare i loro avversari. Tale atteggiamento non si è limitato al potere esecutivo ma ha incluso anche quello legislativo e non ha risparmiato i media.
Siamo uno dei pochi paesi al mondo, ad ulteriore riprova del nostro stratosferico provincialismo, in cui un semplice articolo del New York Times o del Washington Post può divenire lo strumento per un dibattito nazionale. Un vezzo che, purtroppo, ci contraddistingue anche per quanto riguarda importanti testate britanniche come il Financial Times e l’Economist; e che produce un vero e proprio sconforto al pensiero che il settimanale britannico, da diversi anni, è divenuto proprietà della più grande dinastia del capitalismo industriale italiano.
Naturalmente, siffatti atteggiamenti non hanno mai provocato, né provocano, alcun imbarazzo nei numerosi esponenti sovranisti che ultimamente fioriscono nel nostro paese.
Politici e diplomatici italiani hanno una tradizione di appiattimento nei confronti degli Usa
In sintesi, è radicata nel Dna della nostra classe politica e della nostra pubblica amministrazione in senso lato la convinzione che gli Stati Uniti non debbano essere intellettualmente e politicamente ingaggiati, né tantomeno contraddetti e/o contrariati anche quando nostri interessi nazionali vengano ignorati. Quei pochi malcapitati che provano a sollevare la questione, quando gli va bene raccolgono un body language rappresentato da braccia allargate e uno sguardo al cielo e quando va male sguardi torvi che non lasciano presagire nulla di buono per le loro carriere, sia politiche che nella pubblica amministrazione.
Una convinzione, un retaggio mentale, che è invece grossolanamente errato.
Caro Direttore,
Le rivelerò un episodio non molto noto. Venticinque anni fa, all’apice del confronto internazionale sui Balcani, quando l’Italia era ancora esclusa dal famoso Gruppo di Contatto che decideva la politica occidentale in un’area con la quale condividevamo il dirimpetto marittimo, accade che esattamente il 9 Settembre 1995 il presidente del Consiglio Dini coadiuvato dai ministri degli Esteri Agnelli e della Difesa Corcione ebbero l’audacia di convocare – domenica 9 settembre 1995, di pomeriggio!! – l’allora ambasciatore americano per un tesissimo confronto sulla questione in cui l’Italia minacciò alcune precise restrizioni sull’uso delle nostre basi militari da parte dei nostri maggiori alleati impegnati nei Balcani. Sarà un caso ma qualche mese dopo l’Italia venne ammessa nel Gruppo di Contatto sui Balcani.
Si trattò di una lodevole eccezione rispetto ad una prassi purtroppo ben diversa.
Al contrario, dopo aver fatto un madornale errore non entrando a far parte del gruppo P5 + 1 sull’Iran, l’Italia non hai mai nemmeno contemplato l’ipotesi di minacciare di sottrarsi alle sanzioni verso Teheran come arma di pressione per ottenere la propria ammissione in tale consesso.
Ritiro italiano dall’Iraq e missione Unifil in Libano
Quando nel 2006 il governo Prodi 2, coerentemente con il proprio programma elettorale, procedette al ritiro del nostro contingente dall’Iraq, un nutrito gruppo di formazioni politiche di centro-destra e di opinionisti auto-referenziali entrò nuovamente in fibrillazione per le lacerazioni con i nostri maggiori alleati che tale decisione avrebbe potuto determinare. La reazione americana fu molto più comprensiva e composta dal momento che il nuovo governo italiano stava semplicemente tenendo fede ad un impegno preso con i propri elettori. Una prassi piuttosto nota in diverse democrazie.
Peraltro, lo stesso governo Prodi bilanciò intelligentemente questa decisione con un ruolo di leadership militare nella Missione Unifil II in Libano dopo il conflitto dell’estate del 2006 con Israele. Con il dispiegamento di un significativo contingente militare nel Libano del Sud ottenemmo il plauso congiunto di Usa, Israele e diversi paesi arabi; con quella scelta (successivamente contestata da quelle forze politiche che si erano opposte al nostro ritiro dall’Iraq) entrammo a far parte dei primi dieci paesi contributori alle operazioni di pace delle Nazioni Unite ottenendo quindi un utilissimo capitale politico per ostacolare (unitamente agli strenui sforzi della sotto-staffata diplomazia italiana al Palazzo di Vetro) i ricorrenti tentativi di Germania e Giappone di vedersi assegnate un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Una sfumatura che le predette forze politiche, inguaribilmente scettiche sul nostro ruolo nell’Unifil, non riuscirono mai a cogliere. Nel 2009, alla vigilia del suo primo incontro con il neo-presidente del Libano Michel Sleiman, il presidente Berlusconi era intenzionato a comunicare a quest’ultimo il ritiro del contingente militare italiano schierato in seno all’Unifil. Fu possibile dissuaderlo soltanto evocando l’irritazione che tale decisione avrebbe determinato presso Stati Uniti ed Israele.
Servilismo e “diplomazia della sedia” non rafforzano la posizione internazionale dell’Italia
Nell’establishment politico e diplomatico italiano è sempre prevalsa una convinzione fondamentalmente errata. Ovvero che un nostro atteggiamento arrendevole o oltremodo servizievole verso gli Stati Uniti ci avrebbe aperto la strada per entrare a far parte di gruppi decisionali ristretti dove si aveva la percezione che venissero prese le decisioni più importanti.
Per decenni la classe politica e la diplomazia italiana hanno alimentato una psicosi reciproca da “complesso da esclusione” da tali consessi. Una sorta di “diplomazia della sedia”, che ha generato estenuanti mobilitazioni per entrare a far parte di gruppi ristretti nei quali spesso, ironicamente, non avevamo nulla da dire se non adeguarci silenti a decisioni generalmente già maturate in ambiti ancora più ristretti.
Fermezza e buoni argomenti avrebbero aiutato l’Italia a far valere le sue ragioni
Al contrario, se l’Italia avesse avuto più spesso il coraggio di affrontare in modo fermo e ben argomentato gli Stati Uniti per far valere le proprie legittime ragioni – come Gran Bretagna, Francia, Germania hanno sovente fatto – la considerazione e l’attenzione statunitensi verso il nostro paese sarebbero state sicuramente maggiori.
Gli Stati Uniti, contrariamente ad alcuni nostri partners europei, non hanno mai disprezzato l’Italia ma l’hanno soltanto data troppo spesso per scontata su alcune decisioni importanti senza prendersi la briga di consultarla come fanno invece (o facevano, nell’era pre-Trump) con altri maggiori partner europei. Sarebbe tuttavia arduo biasimarli per tale omissione poiché l’Italia li ha sempre abituati al suo appiattimento sulle loro decisioni. È stato un dei più longevi premier italiani del dopoguerra, Silvio Berlusconi, a farsi vanto con una dichiarazione che resterà negli annali storiografici che recitava più o meno in questo modo “la penso come gli Stati Uniti ancora prima di sapere come la pensano”. Dinanzi ad un tale disponibilità preventiva perché a Washington dovrebbero perdere tempo a consultarci? Almeno Berlusconi ha avuto il merito – ovviamente involontario – di affermare apertamente quello che molti altri suoi colleghi pensavano e praticavano.
Purtroppo l’appiattimento italiano sembra continuare
Mi sia consentito di offrire un ultimo, piccolissimo ma fondamentale, esempio, più contemporaneo, per meglio focalizzare la questione. Si riferisce all’esponente politico che guida le due maggioranze politiche (M5S-Lega e successivamente M5S-Pd) che negli ultimi due anni hanno generato le maggiori inquietudini in merito all’aderenza atlantica del nostro paese: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Caro Direttore,
Lei sicuramente ricorderà il triste episodio dell’uccisione, il 26 Luglio scorso, del carabiniere Mario Cerciello Rega da parte di due turisti americani e la coda di polemiche seguita alla diffusione di un’istantanea di uno dei due ammanettato e bendato in una caserma dell’Arma. La circostanza del bendaggio fu certamente deplorevole ma, tutto sommato, decisamente minore rispetto agli innumerevoli episodi di brutalità, talvolta fatale, attribuiti da anni alle diverse forze di polizia statunitensi. Ebbene, in tale circostanza una reazione ufficiale di rammarico per l’episodio non è stata lasciata, come sarebbe stato normale, al comandante della caserma dei Carabinieri dove è avvenuto l’episodio, o al comandante dell’Arma che sarebbe già apparso eccessivo, o ai ministri dell’Interno e/o della Difesa che sarebbe apparso del tutto spropositato. Il rammarico italiano ha addirittura preso corpo attraverso un contrito comunicato del presidente del Consiglio – IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO! – la massima autorità politica del paese.
Le circostanze che hanno indetto il presidente Conte a tale gesto non sono note, se lo ha fatto perché sollecitato dal grande palazzo situato a Roma all’incrocio tra Via Veneto e Via Bissolati sarebbe gravissimo, se invece lo avesse fatto spontaneamente sarebbe ancora più grave.
Alla luce di quanto precede spero che lei comprenderà – Caro Direttore – quanto siano prive di fondamento le preoccupazioni di numerosi esponenti politici, analisti ed opinionisti circa una deriva antiamericana, filo-russa o filo-cinese del nostro paese? Se anche il leader delle due maggioranze politiche più anomale di questo paese degli ultimi anni ha nel suo Dna politico afflati del genere verso Washington ritengo che possiamo stare più che tranquilli. Potrei sbagliarmi, ma anche in questo caso specifico non ho memoria di alcuna significativa presa di posizione critica del variegato fronte sovranista nostrano a tutela della dignità nazionale nostro paese.
Del resto, in un panorama politico-giornalistico in cui l’analisi delle relazioni tra Italia e Stati Uniti ruota prevalentemente sull’interpretazione di singoli tweet di sostegno del presidente americano a quello italiano, con il nome di quest’ultimo peraltro storpiato, non mi meraviglierei più di nulla.
Non è in discussione l’appartenenza dell’Italia a Nato e Ue, ma occorre starci in modo più dignitoso
In conclusione, Caro Direttore, le scelte fondamentali del nostro paese non sembrano in discussione, i giri di walzer contraddistinguono le relazioni internazionali da secoli e continueranno a farlo; peraltro, non sono prerogativa esclusiva del nostro paese, quello che conta è che dopo un’eventuale scappatella si faccia rientro a casa, e su questo, francamente, mi sembra che vi siano pochi dubbi.
L’Italia deve restare nell’Alleanza Atlantica e continuare a fornire il proprio importante contributo, se solo riuscisse a farlo in un modo più dignitoso evitando di lasciarsi condizionare da scariche di adrenalina di una classe politica e giornalistica in un vuoto pneumatico sarebbe anche meglio.
Scopri di più da Diplomazia Italiana
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.