Cui prodest Coronavirus? La replica dell’Ambasciatore Carnelos

Per l'Ambasciatore Carnelos a distanza di tanto tempo, e dopo gli eventi epocali succedutisi dal 1989 in poi, in Italia sarebbe opportuna una riflessione più approfondita su come tutelare l'interesse nazionale. Magari avendo anche il coraggio e l’onestà intellettuale per ammettere che molti interessi italiani non sono danneggiati dai nostri presunti nemici, ma dai nostri “migliori” amici.

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cui prodest Carnelos

Riceviamo – e volentieri pubblichiamo – l’interessante e puntuale analisi dell’Ambasciatore Marco Carnelos in replica al recente articolo “Italia e modello Cina, cui prodest Coronavirus” a firma dell’Ambasciatore C.D.

cui prodest Carnelos

 

 

Caro Direttore,

l’interessante editoriale “Italia e modello Cina, cui prodest Coronavirus? pubblicato da Diplomazia Italiana il 23 marzo u.s., offre spunti per una garbata replica con l’auspicio che possa stimolare un proficuo dibattito; la reclusione forzata imposta dal Covid-19, offre infatti l’opportunità per riflessioni più sistemiche di quelle consentite dalla routine quotidiana di qualche settimana fa.

L’articolo è largamente condivisibile, ma alcune posizioni che affrontano temi importanti come il collocamento internazionale dell’Italia e la tutela dei suoi interessi nazionali suscitano qualche disappunto.

Nel testo, una delle caratteristiche più importanti e perduranti della Cina, viene brillantemente sintetizzata definendola un Paese “… dove i doveri, funzionali al successo della comunità, primeggiano sui diritti individuali…”; non altrettanto per quanto concerne l’Occidente, riduttivamente derubricato ad un luogo in cui “… i diritti delle minoranze sembrano prevalere sull’interesse comune…” 

Quest’ultima asserzione non è errata, al contrario, l’Occidente di questa sua peculiarità si è orgogliosamente e giustamente vantato per decenni nel confronto ideologico con diverse forme di autoritarismo con le quali si è rapportato, in particolare nell’appena trascorso XX secolo.

Purtroppo, l’aspetto più preoccupante della peculiarità occidentale e meno contemperato dalla politica – a giudicare dall’esperienza degli ultimi decenni – è che i diritti dell’individuo o, se vogliamo, di un ristretto gruppo di individui, sono sembrati fin troppo frequentemente e abnormemente prevalere sull’interesse comune. La profonda e secolare incomprensione culturale tra Occidente e Oriente (inclusa la dimensione islamica di quest’ultimo) è in buona parte racchiusa in questa non banale differenza.

La chiave di lettura del confronto tra modelli di civiltà offerta dall’articolo per decrittare l’odierno sistema internazionale appare ineccepibile, ma occorrerebbe evitare di cadere in qualche forzatura.

Definire la Guerra Fredda “una sfida tra modelli di civiltà” rischia di apparire fuorviante considerando che essa è stata un confronto ideologico pluriennale scaturito all’interno delle molteplici sfaccettature che una sola civiltà, quella occidentale appunto, ci ha offerto negli ultimi secoli e dove, fortunatamente, alla fine ha prevalso quella che si è rivelata indubbiamente migliore. Accostare poi questo epico confronto storico a quello che oggi divide l’Europa dalla Turchia finisce con l’attribuire a quest’ultima uno status che, francamente, non merita.

Quanto all’aspetto che, da questo modesto osservatorio, maggiormente rileva dell’articolo, ovvero i rapporti e la collocazione internazionale del nostro paese, anche rispetto alla Cina, sarebbero utili alcune precisazioni.

È indubbio che quello cinese non può (non deve) essere un modello cui ispirarsi, volendo non ne saremmo nemmeno capaci; tuttavia, sarebbe anche opportuno non finire vittime della sindrome ossessiva da sicurezza che da troppo tempo caratterizza alcuni nostri grandi alleati.

La vera storia di come questo virus sia nato e si sia diffuso verrà scritta solo tra qualche anno, l’auspicio è che ciò avvenga con il contributo scientifico di ricercatori ed analisti seri che possano attribuire responsabilità oggettive laddove ve ne siano e, soprattutto, stabilire lezioni utili per il futuro. 

Pertanto, il ricorso a forme di propaganda becere e xenofobiche tipo “the Chinese virus” tanto caro all’attuale Presidente degli Stati Uniti, dopo che il 24 gennaio scorso – leggere per credere – aveva sostenuto tesi diametralmente opposte, assolve unicamente alla funzione di deflettere l’attenzione sull’inadeguatezza di cui ha dato prova fino a qualche giorno fa la sua amministrazione; inoltre, è difficile che tali atteggiamenti possano facilitare quella comprensione e cooperazione internazionali che sono invece cruciali per affrontare e risolvere situazioni di emergenza globale come questa.

È più che plausibile – vista anche la tradizione politica del regime comunista cinese – che vi siano stati ritardi ed opacità da parte di Pechino, o delle locali autorità della Provincia di Hubei, nell’informare la comunità internazionale sul coronavirus. Tuttavia, quando quest’ultima è stata debitamente informata attraverso i canali preposti fin dall’inizio dello scorso gennaio, come risulterebbe dall’Oms e da prestigiose pubblicazioni scientifiche come Lancet, i ritardi e le opacità manifestate da alcuni grandi paesi occidentali sono apparsi assai più gravi, a tratti orwelliani. Dopo essere stato apparentemente allertato del rischio pandemia dall’intelligence  fin dal mese di gennaio, il Presidente Trump ha atteso fino al corrente mese di marzo inoltrato per accantonare il suo “negazionismo” sulla questione, offrendo al contempo una disarmante e caotica impreparazione del governo federale nel gestire l’emergenza; ritrovandosi ora a doversi confrontare con un numero di contagi che potrebbe essere astronomico. Il suo sodale in Gran Bretagna, Boris Johnson, si è prima avventurato in maldestri e spregiudicati tentativi di darwinismo sociale perorando l’immunità di gregge senza la disponibilità di un vaccino, per poi effettuare una rovinosa quanto imbarazzante conversione di 180 gradi quando il prestigioso Imperial College di Londra ha ricondotto alla ragione lui ed i suoi consiglieri medico-scientifici evidenziando verso quale muro… di cadaveri… stavano andando ad infrangersi; conversione che, comunque, secondo l’Università di Oxford, potrebbe non aver risparmiato dall’infezione addirittura la metà della popolazione britannica.

In sintesi, quanto a ritardi ed opacità, per non dire altro, le autorità cinesi sembrerebbero in ottima compagnia.

Purtroppo, il cosiddetto “blame game” è una tentazione insopprimibile nelle relazioni internazionali. Tuttavia, un minimo di buon gusto imporrebbe che coloro più propensi ad avventurarsi con frequenza in tale esercizio possano almeno fregiarsi di credenziali impeccabili per salvaguardare la loro credibilità e, soprattutto, per non perdere di vista un minimo senso delle proporzioni. Nel 2008, dopo pluriennali condotte scellerate – perseguite con la tolleranza e la negligenza dalle istituzioni chiamate a vigilarlo – il sistema finanziario statunitense diffuse il virus di una crisi finanziaria globale che ha prodotto danni enormi alle economie di moltissimi paesi, inclusa l’Italia (sorvoliamo sugli effetti devastanti delle guerre senza fine in Medio Oriente). Provate ad immaginare cosa sarebbe accaduto all’epoca se a qualcuno fosse venuto in mente di puntare il dito contro gli Stati Uniti per quanto stava accadendo. Quanto all’opacità, come definire un sistema finanziario che ha proceduto alla vendita consapevole di titoli spazzatura a decine di milioni di risparmiatori, gettandoli sul lastrico con devastanti conseguenze sociali? Quale migliore esempio di questo per esemplificare i diritti (interessi) di un gruppo ristretto di individui che prevalgono su quelli generali?

Forse sarà sfuggito a molti, ma dopo la catastrofe del 2008 originata dagli Stati Uniti, il paese che ha salvato l’economia mondiale diventandone la principale locomotiva, è stato la Cina.

Fatte queste doverose premesse, veniamo ora al collocamento internazionale del nostro paese. Una questione piuttosto dibattuta negli ultimi tempi, specie da quando nel 2019 il governo Lega/M5S ha siglato un MoU (si badi bene non un trattato ma un semplice e non vincolante memorandum d’intesa!) con la Cina inerente il più grande progetto infrastrutturale mai concepito, ovvero la Belt and Road Initiative.

L’articolo evoca un ammiccamento alla Cina tramite dilettantistici tentativi diplomatici ammonendo che in questo modo l’Italia starebbe “giocando col fuoco”, traduzione: il buon umore degli Stati Uniti d’America nei nostri confronti.  

Tale senso di allarme appare comprensibile alla luce del retaggio culturale che ci caratterizza da decenni, ma anche piuttosto esagerato, nonostante, avventati esponenti della Lega e del M5S abbiano talvolta addirittura coltivato improbabili velleità neutraliste/terzomondiste; questi ultimi, comunque, sono stati immediatamente ricondotti a più miti consigli.

È tuttavia indiscutibile che il tema del cosiddetto sovranismo sia entrato prepotentemente nel dibattito sulla collocazione e sulle scelte internazionali del nostro paese. Il concetto è stato fatto valere soprattutto verso l’Ue, unica entità, peraltro, nei confronti della quale l’Italia ha deliberatamente scelto di limitare la propria sovranità (ex art. 11 della nostra Costituzione). In ambito extra-Ue, invece, il nostro paese non ha tuttavia operato una scelta formale altrettanto forte, anche se, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con gli Stati Uniti, limitazioni di fatto della nostra sovranità esistono e sono tollerate da tempo. Affermare tale concetto non dovrebbe automaticamente essere equiparato ad antiamericanismo, come criticare il governo di Israele per alcune sue scelte politiche non dovrebbe automaticamente esporre all’accusa di antisemitismo.

Nulla da eccepire verso forme di sovranismo nostrano, considerato che i nostri principali alleati e partner le adottano disinvoltamente da tempo, anche ai danni del nostro paese; sarebbe tuttavia auspicabile, e anche più credibile, se queste fossero generalizzate e non à la carte. Non dovrebbe sfuggire, infatti, che molti fautori nostrani di questo non meglio precisato sovranismo, siano anche in prima fila nel denunciare un elevato rischio sicurezza/sovranità rappresentato da paesi come la Cina (penetrazione economica, 5G, e ora il virus, etc.), Russia (minaccia cibernetica etc.) e Iran (minaccia terroristica). Non dovrebbe nemmeno sfuggire che l’ansiosa preoccupazione di “giocare con il fuoco” per ogni minimo presunto ammiccamento del nostro paese al di fuori della rigorosa cerchia atlantica e comunitaria non contribuisca certamente a rendere impeccabili tali credenziali sovraniste. 

Il possesso e l’esercizio della sovranità sono condizioni essenziali per tutelare gli interessi di una nazione, essenzialmente sono due facce della stessa medaglia, anche se possono esistere casi di nazioni formalmente sovrane la cui classe politica non adempie tuttavia al meglio alla tutela di tali interessi e/o sia costretta a sacrificarne alcuni.   

Volgendo quindi l’attenzione alla sicurezza dell’Italia ed alla tutela dei relativi interessi nazionali, emerge che le principali minacce a questi ultimi siano state rappresentate più recentemente da: terrorismo, sostenibilità finanziaria, immigrazione incontrollata, danni economici derivanti dalle sanzioni adottate verso alcuni nostri partner commerciali, l’assunzione del controllo di nostri assetti economici pregiati da parte di gruppi stranieri, dazi commerciali, cyber-warfare e, da ultimo, la pandemia da coronavirus.

Ebbene, tranne forse la cyberwarfare (aspetto tuttavia ancora controverso) e l’attuale pandemia, l’insieme di queste minacce non è certamente ascrivibile unicamente a (deliberate o meno) progettualità ostili dei nostri presunti nemici precedentemente citati. Al contrario, alcune evidenze offrono una realtà più complessa, meno confortante e che dovrebbe perlomeno stimolare qualche riflessione:

  1. Terrorismo. Senza riaprire un dibattito che si trascina sterilmente da anni, le evidenze indicano una corrispondenza tra maldestre iniziative militari occidentali in Medio Oriente e la crescita esponenziale (non la nascita) del fenomeno. Quest’ultimo, per quello che riguarda le progettualità ostili nei confronti del nostro paese è quasi completamente ascrivibile ad una matrice sunno-salafita non certamente riconducibile all’Iran, ma piuttosto a nostri partner economici-commerciali e fornitori energetici della regione;
  2. La sostenibilità finanziaria del nostro paese, fermo restando che sia in larghissima parte attribuibile a errori di politica economica e finanziaria sui quali abbiamo perseverato per anni, è stata anche messa a repentaglio, importata, da decisioni, omissioni, pregiudiziali e shock sistemici che, come illustrato precedentemente, non sono riconducibili e centrali politiche e finanziarie situate a Mosca, Pechino e Teheran, ma in altre capitali e centri decisionali a noi assai più vicini;
  3. Immigrazione incontrollata. Fatto salvo quanto già detto sulle guerre senza fine nel Grande Medio Oriente e l’enorme flusso di profughi che hanno generato, è sufficiente aggiungere una sola parola: Libia. Basta quindi rinfrescare la memoria sugli artefici della brillante operazione del 2011 per poter concludere che, almeno questa volta, per ricorrere ad un hashtag popolare: “non ha stato Putin”.
  4. È comprensibile che solidarietà euro-atlantiche ci abbiano imposto sanzioni contro la Russia per le azioni di quest’ultima nel proprio “estero vicino” o in qualche campagna elettorale (e anche qui vi sarebbe materia per ampie discussioni). Meno comprensibile che i principali alfieri della politica dura verso Mosca ostentino una sostanziale ed immemore indifferenza verso le difficoltà dell’Italia in questo momento esprimendo al contempo stizza, e addirittura frapponendo ostacoli, per gli aiuti che la Russia (insieme a Cina e… Cuba!!!) sta inviando nel nostro paese, premurandosi di liquidarli come mere azioni propagandistiche o di penetrazione.
  5. Meglio non dilungarsi troppo, infine, sulle ripetute minacce di dazi, dannosi anche nei nostri confronti, da parte del nostro principale alleato e sullo shopping economico senza reciprocità cui abbiamo abituato i nostri cugini d’oltralpe.

A scanso di equivoci, non si intende qui sostenere che l’Italia debba rivedere le scelte fondamentali – atlantica ed europeista – circa il proprio collocamento internazionale compiute diversi decenni fa. Ma forse, a distanza di così tanto tempo, e dopo eventi epocali che si sono succeduti dal 1989 in poi, potrebbe almeno considerare l’idea – si badi bene, considerare semplicemente l’idea – di svolgere una riflessione più approfondita su come tutelare un po’ meglio i propri interessi nazionali; magari avendo anche il coraggio e l’onestà intellettuale per ammettere che – purtroppo – molti di questi non sembrerebbero danneggiati dai nostri presunti nemici, ma al contrario dai nostri “migliori” amici.

Marco Carnelos


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