Italia, Cina e interessi nazionali

Davanti alla partita Usa-Cina, Italia e Europa potrebbero trovarsi alle prese con un complesso dilemma. L’auspicio è che chi sarà chiamato a prendere una decisione possa farlo sulla base della realtà e nella consapevolezza che l’Europa (e l’Italia), in quanto soggetto politico internazionale autonomo, manterrà una sua rilevanza nella misura in cui sarà in grado di respingere pressioni ultimative tipo “either with me or against me”.

Riceviamo dall’Ambasciatore Marco Carnelos – e volentieri pubblichiamo – un interessante contributo alla comprensione dell’attuale cornice internazionale dal titolo “Italia, Cina e interessi nazionali”.Italia Cina interessi nazionali

Caro Direttore,

allontanandoci momentaneamente dal demenziale dibattito nazionale su Mes, Euro/Corona Bond, Sure, Recovery Plan, ecc. basato, e non da oggi purtroppo, su un presupposto di base completamente erroneo, ovvero che l’Ue sia un’istituzione fondata sulla solidarietà tra i propri Stati membri, e sul quale – a voi piacendo – mi riprometterei di tornare, vorrei soffermarmi invece su un altro dibattito, gli interessi nazionali italiani, quello concernente i rapporti con la Cina; la finalità è quella di ampliare e completare – mi auguro – una riflessione che Diplomazia Italiana ha già gentilmente ospitato qualche settimana fa.

La pandemia da corona virus ha riproposto la questione dei rapporti con la Cina, anche in questo caso con modalità virali esponenziali. Da diversi anni il ruolo di Pechino è ampiamente discusso nel contesto di un apparente mutamento dell’ordine politico ed economico internazionale centrato, come noto, su regole dettate essenzialmente – ma generalmente condivise a livello globale – dagli Stati Uniti d’America fin dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale.

I termini del dibattitto sono quindi in larga parte scanditi da questi ultimi, e tutti i paesi loro alleati vi si adeguano; pertanto, per meglio orientare il dibattito italiano sulla Cina, non si può prescindere da quello che sarebbe in corso oltre oceano. È indubbio, infatti, che da qualche tempo la Cina, con i suoi innegabili successi economici e tecnologici, venga rappresentata come una minaccia crescente all’ordine ruotante su hard e soft-power statunitensi. L’uso del termine rappresentazione non è causale, dal momento che, anche nel caso cinese, la rappresentazione dei fatti talvolta prende il sopravvento sulla realtà degli stessi. 

Innanzi tutto, è opportuno smontare una prima rappresentazione, ovvero che la diffusa percezione della Cina come minaccia sia attribuibile all’attuale Amministrazione americana, probabilmente veicolata dai dazi adottati dal Presidente Trump. Si tratta invece di un’eredità dell’Amministrazione Obama. L’ormai abortita Trans Pacific Partnership (Tpp) venne lanciata proprio da quest’ultima, firmata nel febbraio 2016 ma mai ratificata a causa del successivo ritiro dall’accordo dell’Amministrazione Trump. La Tpp – al di là di alcune lodevoli finalità – altro non era che un tentativo di imbrigliare la percepita ascesa cinese nell’area del Pacifico. Trump, abbastanza allergico al multilateralismo quale strumento di promozione degli interessi nazionali statunitensi, ha preferito il canale diretto dei dazi commerciali sui prodotti cinesi e le pressioni, talvolta scomposte e poco convincenti, sugli alleati circa i rischi della tecnologia cinese (5G, Huawei, A.I., I.o.Ts, ecc.) come strumenti di pressione/argine verso Pechino. Sull’efficacia di tali ultime misure sembrerebbe prematuro trarre conclusioni definitive.

Caro Direttore,

fatte queste doverose premesse, quello che si desidera sottolineare in questa sede è che, analogamente a quanto accade per l’Unione Europea, il dibattito sulla Cina potrebbe essere viziato da ben tre presupposti potenzialmente errati.

Il primo è che il dibattitto negli Stati Uniti su quale corso imprimere alle relazioni bilaterali con la Cina sia ancora aperto. Purtroppo, è vero il contrario; quindi, non si tratta di attendere le elezioni presidenziali di novembre per vedere se Joe Biden scalzerà Donald Trump dalla Casa Bianca, perché questo eventuale verdetto sarà del tutto irrilevante. Biden non opererà inversioni di tendenza, al riguardo, basta leggere il deprimente manifesto di politica estera che l’ex Vicepresidente americano ha pubblicato nell’ultima edizione di Foreign Affairs. Possiamo quindi concludere che negli Stati Uniti esiste ormai un largo consenso bipartisan su una visione della Cina e delle sue intenzioni riassumibile nei seguenti termini: 

“China aspires to dominate its neighbours and to exclude the United States from the emerging Sino-centric order in its region. China’s dominance of its region would give Beijing human and material resources to threaten not just U.S. hegemony but the United States itself. The countries of the region are incapable of balancing and constraining Chinese power and influence, so the United States must do this for them. American confrontation with China is essential to the continued sovereign independence of the region’s other countries”.

Quanto precede è l’autorevole giudizio emesso qualche giorno fa dal decano degli studiosi americani della Cina, il leggendario Ambasciatore Chas Freeman jr, colui che, per intenderci, svolse la funzione di interprete nello storico colloquio tra Mao Tse Tung e Richard Nixon a Pechino nel febbraio 1972. Freeman aggiunge, inoltre, come a Washington la predetta visione non sia più oggetto di una valutazione empirica ma è ormai considerata un vero e proprio assioma. Per l’Italia quindi, nel caso, non si tratta di attendere, ma di fare una scelta; il modesto auspicio dello scrivente è che questa possa avere luogo basandosi il più possibile sui fatti e un po’ meno sulle rappresentazioni dei medesimi.

Il secondo presupposto apparentemente errato, o perlomeno discutibile, è che la Cina voglia sovvertire l’attuale ordine internazionale. Premesso che andrebbe chiarito cosa si intenda per sovvertimento, finora tale tesi sembrerebbe tuttavia poco suffragata dai fatti. A ben vedere, nell’attuale ordine internazionale concepito, imposto e fino ad oggi tutelato dagli Stati Uniti d’America, la Cina ha conosciuto un enorme accrescimento della propria prosperità. L’economia cinese ha superato quella statunitense in termini di parità di potere d’acquisto; sempre grazie al sistema messo in piedi da Washington tra il 1944 (Accordi di Bretton Woods) e il 1947 (Gatt, oggi Wto) negli ultimi trenta anni la Cina ha potuto beneficiare di tassi di crescita straordinari e sottrarre dalla povertà 800 milioni di suoi cittadini. Dopo la crisi del 2008, la crescita economica mondiale è stata sostenuta dalla Cina. Non si comprende, quindi, per quale ragione quest’ultima dovrebbe voler sovvertire tale ordine che le ha dato così tanto. Nel già citato saggio su Foreign Affairs, Joe Biden si impegna a fare in modo che, letteralmente, “the rules of the international economy are not rigged against the United States”. Appare un chiaro riferimento alla Cina, ma anche qui non si comprende in base a quali reconditi ragionamenti il candidato presidenziale democratico possa prefiggersi simili obiettivi quando le attuali regole dell’economia internazionale sono state concepite, imposte e fino ad oggi tutelate proprio dal suo stesso Paese.

Se dovessimo basarci sui fatti (ovvero la realtà non le sue rappresentazioni) chi sta tentando da tre anni a queste parte di demolire alcuni pilastri dell’attuale ordine internazionale è invece il temporaneo inquilino della Casa Bianca (il ritiro dagli accordi di Parigi sul clima, l’avvio di guerre commerciali verso alleati e rivali indistintamente, ecc.) mentre, paradossalmente, colui che si è precipitato a difenderlo dinanzi agli Stati Generali del neoliberalismo globalizzato mondiale, ovvero l’annuale Vertice di Davos, è stato proprio il Presidente cinese Xi Jingping, nel gennaio del 2017, e lo ha fatto in termini decisamente inequivoci:

É vero che la globalizzazione economica ha creato nuovi problemi, ma questa non è una giustificazione sufficiente per rinunciarvi. Piuttosto, dovremmo guidarla per attenuarne l’impatto negativo e offrirne i benefici a tutti i paesi… Piaccia o meno, l’economia globale è il grande oceano da cui non si può sfuggire. Qualsiasi tentativo di interrompere il flusso di capitali, tecnologie, prodotti, industrie e persone tra le economie e incanalare le acque dell’oceano in laghi e insenature isolate non è semplicemente possibile. 

Dobbiamo impegnarci a sviluppare il libero scambio e gli investimenti globali, promuovere la liberalizzazione e agevolazione degli scambi e degli investimenti attraverso l’apertura e dire no al protezionismo. Perseguire il protezionismo è come chiudersi in una stanza buia. Mentre il vento e la pioggia possono essere tenuti fuori, quella stanza buia bloccherà anche la luce e l’aria. Nessuno emergerà vincitore da una guerra commerciale”.

Il terzo presupposto errato appare quello più importante e, per così dire sistemico, ed è il macroscopico equivoco di fondo che ha caratterizzato le relazioni tra Stati Uniti e Cina negli ultimi 40 anni, da quando nel 1978 Deng Xiao Ping aprì il proprio Paese all’Occidente, mantenendo tuttavia alcune caratteristiche prettamente cinesi nel portare avanti questa scelta epocale.

Caro Direttore,

è risaputo che per rendere alcuni concetti più comprensibili ad una più vasta platea si è soliti ricorrere a delle metafore; è inoltre parimente noto che in Italia le metafore più apprezzate sono quelle calcistica e sessuale. Spero che lei ed i lettori di Diplomazia Italiana mi perdoneranno se ricorro alla seconda. La storia delle relazioni tra Stati Uniti e Cina nelle ultime quattro decadi è assimilabile a quella di una lunga storia d’amore mai consumata. Washington ha corteggiato Pechino per decenni con la speranza che questa attrazione venisse corrisposta fino in fondo; la Cina, dal canto suo, ha certamente apprezzato tale corteggiamento, ne ha sicuramente beneficiato (forse anche approfittato), ma non si è mai minimamente sognata di consumarlo fino in fondo. Traducendo il tutto in formule più politiche, gli Stati Uniti hanno a lungo tollerato le peculiarità cinesi nella speranza che Pechino entrasse a far parte a pieno titolo della cosiddetta comunità internazionale, ovvero adeguando il proprio sistema politico ai valori occidentali della democrazia e del rispetto delle libertà politiche fondamentali. Il fatto è che in nessun momento di questo pluriennale rapporto la leadership cinese è mai stata sfiorata da tale pensiero ed appare perlomeno controverso se lo sia stata la stessa popolazione.

Questo “brusco” risveglio è stato piuttosto dilazionato nel tempo ma non per questo meno traumatico per l’establishment politico statunitense. Alla delusione e all’amarezza sono progressivamente subentrati l’astio e la frustrazione; soprattutto quando la Cina ha iniziato ad inanellare una serie di successi economico-finanziari e tecnologici che a Washington e dintorni sono stati giudicati progressivamente intollerabili. Il Covid-19 e le polemiche sull’origine e le responsabilità sulla diffusione del virus e le allusioni a possibili mancati allarmi e richieste di risarcimento ai danni di Pechino hanno fatto il resto.

In altri termini, finché la Cina ha osservato disciplinatamente il sistema che le conferiva la produzione a bassissimo costo di beni di largo consumo per il mercato americano consentendo agli Stati Uniti di sostenere la loro economia consumista basata sulla bolla del debito e coperta dall’indiscusso ruolo di valuta di riserva globale del dollaro e Pechino, a sua volta, devolveva una parte significativa del proprio enorme surplus commerciale con Washington alla sottoscrizione dello stesso debito statunitense attraverso l’acquisto di treasury bonds americani è andato tutto bene. Collateralmente a questo sistema, grandi corporations americane hanno delocalizzato enormi produzioni in Cina e risparmiato centinaia di miliardi di dollari nelle catene di valore, incassando enormi profitti espellendo tuttavia dal mercato del lavoro interno decine di milioni di lavoratori americani; tale circolo vizioso ha peraltro condotto Trump alla Casa Bianca nel 2016.  

Quando tuttavia la Cina ha progressivamente iniziato a fare alcuni giganteschi salti di qualità in altri settori quali le alte tecnologie, a costruire un vasto progetto politico-economico-infrastrutturale euroasiatico centrato sulla Nuova Via della Seta lanciata nel 2013 e a costituire il proprio equivalente della Banca Mondiale, ovvero la Asian Infrastructure and Investment Bank (Aiib) nel 2017, i rapporti tra i due Paesi hanno iniziato a prendere una piega diversa. 

La percezione cinese su questa dinamica è stata autorevolmente offerta qualche giorno fa da un editoriale apparso sul Global Times, il quotidiano di Pechino in lingua inglese che generalmente riflette le posizioni del Partito Comunista Cinese, dal significativo titolo “China-US relations will no longer be the same”. Questo sembrerebbe confermare che, anche dal punto di vista della dirigenza di Pechino, il dibattito sulle relazioni con Washington sia ormai chiuso e il rapporto tra i due Paesi alquanto compromesso. La narrativa cinese sui motivi per i quali si sia arrivati a tale situazione è che “US does not accept the possibility of China becoming a parallel and equal force”. In sintesi, l’unica Cina che gli Stati Uniti sarebbero disposti a tollerare è quella che “stop its high-tech progress” e “focus only on low-end industries, unable to compete with the US and the West in high-end manufacturing”. In ultima analisi, a Pechino sembrerebbero sempre più convinti che l’intenzione americana sia quella di voler indebolire la Cina in modo che perda la capacità strategica di competere con gli Stati Uniti. L’editoriale conclude, in modo abbastanza perentorio, che la Cina non acconsentirà a tale presunto disegno. 

La cruda realtà è che la più recente dinamica tra Stati Uniti e Cina mette a confronto due visioni diverse sul ruolo dei due Paesi nel contesto internazionale. Quella statunitense, nonostante l’America First conclamata da Trump (che appare sempre più un America Only), resta ancora impregnata dal concetto proprio dell’eccezionalismo statunitense, quello di nazione indispensabile e leader per tutta l’umanità che tutti dovrebbero emulare. Una convinzione fondata su un innegabile successo ed un fortissimo modello di attrazione non solo politico, ma anche e soprattutto culturale; una posizione che, apparentemente, non tollera sfide all’egemonia conseguita dagli Usa negli ultimi settanta anni, ma, al contrario, le equipara a delle vere e proprie minacce esistenziali. Quella cinese, invece, ambisce a recuperare il prestigio e rispetto perduti nel cosiddetto “secolo delle umiliazioni” tra il 1839 (guerra dell’Oppio) e il 1949 (vittoria della Rivoluzione Maoista). Pechino non sembrerebbe ambire alla guida del mondo (il suo modello è peraltro assai meno attraente di quello statunitense) anche perché i cinesi – riflettendo un atteggiamento diametralmente opposto a quello statunitense – ritengono che nessun popolo sarebbe in grado di poter emulare il loro modello, né, tuttavia, lo pretendono.

Quanto alla minaccia militare cinese, frequentemente evocata, benché sia opportuna una severa sorveglianza sulle iniziative militari di Pechino, inclusi settori delicati come la cyber-security, il 5G e l’Intelligenza Artificiale, dovrebbe essere anche mantenuto un minimo senso delle proporzioni. Gli Stati Uniti hanno una budget militare ed una capacità di proiezione militare globale sostenuta da circa 1.000 basi sparse in tutto il mondo (molte di queste disposte come una sorta di cordone sanitario lungo i confini marittimi cinesi) che Pechino non può ancora vantare; quest’ultima dispone di una sola base militare al di fuori del proprio territorio nazionale, a Gibuti.

Infine, non va sottaciuto che buona parte dell’ascesa cinese è anche la risultante della netta percezione di un declino statunitense, che tuttavia è essenzialmente auto-inflitto. Negli ultimi trenta anni la Cina ha investito in ricerca, sviluppo e infrastrutture raggiungendo risultati straordinari. Gli Stati Uniti, invece, hanno perseguito costose, e sovente disastrose, guerre senza fine nel Grande Medio Oriente, pericolose forme di finanza speculativa che hanno prodotto enormi bolle di debito, nonché rovinose recessioni economiche come quella post-2008 che hanno finito col drenare preziose risorse al mantenimento della capacità competitiva del paese. Il conto di queste scelte assai diverse è purtroppo è arrivato e, anche a causa degli effetti del corona virus, appare molto più salato di quanto inizialmente immaginato.

Caro Direttore,

tutto ciò premesso, è evidente come nei prossimi mesi, dinanzi alla difficile dinamica sino-americana, l’Italia e l’Europa potrebbero essere messe dinanzi ad un difficile dilemma. L’auspicio è che coloro che verranno chiamati a prendere una decisione possano farlo sulla base della realtà e non delle sue rappresentazioni e nella consapevolezza che l’Europa (e l’Italia), in quanto soggetto politico internazionale autonomo, manterrà una sua rilevanza nella misura in cui sarà in grado di respingere pressioni ultimative tipo “either with me or against me” e, sempre nel solco di decisioni storiche assunte alcuni decenni fa, dare prova di un quanto mai necessario e salutare equilibrio.

Marco Carnelos

 

Questo articolo è pubblicato anche su ItaliaNotizie24.it