Visti di ingresso negati? Arriva la “victim card” targata Repubblica

In tema di visti, su La Repubblica Concita De Gregorio pubblica la lettera di una signora italiana che lamenta la decisione dell’Ambasciata d’Italia in Tanzania di non rilasciare il visto alla maestra della figlia, con l’infelice titolo “La maestra e il burocrate razzista”.

La Farnesina vorrà senz’altro replicare, perché la lettera contiene diverse inesattezze di fatto e di diritto. Oltretutto il titolo in sé è diffamatorio nei confronti del lavoro delle nostre Ambasciate, quasi fossero covi di beceri soggetti che non vedono l’ora di avere a tiro utenti da maltrattare, meglio se di pelle scura.

Il tema essenziale è questo: il rilascio dei visti è una concessione, non un diritto ed è regolato da una normativa europea, il c.d. Codice dei visti Schengen. L’Italia fa parte di un’area che comprende ben 26 paesi europei che hanno abolito i controlli alle loro frontiere comuni. Di conseguenza, quando una nostra Ambasciata concede un visto, non solo permette al beneficiario di entrare in Italia, ma gli consente anche di circolare liberamente in tutta l’Area Schengen. È evidente, quindi, la responsabilità che abbiamo nei confronti di tutti gli altri Paesi dell’Area.

Il visto non è un diritto

Di conseguenza, la normativa impone di fare un attento esame dei documenti dei richiedenti visti per accertare se sussista in concreto un rischio immigrazione. E il funzionario che concede o nega i visti risponde delle sue decisioni, anche sul piano penale.

Ora, è un dato di fatto – ne avrà sentito parlare anche Concita De Gregorio – che sono numerosi e in aumento i casi di stranieri che entrano regolarmente in Europa con il visto e che, alla scadenza di quest’ultimo, si guardano bene dal rientrare nel Paese di origine.

In queste situazioni il funzionario è considerato responsabile di non aver adeguatamente valutato il rischio immigrazione, con le conseguenze del caso. Per inciso, in Italia il diniego è ricorribile davanti al TAR, a maggior garanzia dei richiedenti.

Sbagliato, dunque, voler evocare un inesistente razzismo quando un funzionario dello Stato nega un visto in applicazione della normativa. Quest’ultima, in linea con la Costituzione, non fa differenza di sesso, di razza, di credo o di idee politiche.

Si può essere o non essere d’accordo con il Codice Schengen. Si può parteggiare per la chiusura delle frontiere o per la loro indiscriminata apertura, come desiderano molte Ong (forse anche quella per cui lavora l’autrice della lettera?).

Comunque la si voglia vedere, ci sono due punti ineludibili.

Primo, finché il Codice Schengen è in vigore va applicato. Ne va della credibilità dell’Italia come Stato.

Secondo, giacché si tratta di una questione squisitamente politica, sull’immigrazione la decisione spetta al popolo italiano. E, sull’argomento, gli italiani si sono espressi in modo chiaro e netto con il voto del 4 marzo. La politica estera si fa servendo l’interesse nazionale, non assecondando sentimentalismi o vittimismi che, soprattutto di questi tempi, sanno di strumentale.

Le leggi si applicano, inutile invocare un inesistente razzismo

Altra questione, infine, se il funzionario abbia tenuto comportamenti inappropriati o scortesi. Più che giusto, in questi casi, che chi si ritiene leso faccia una formale segnalazione all’Ambasciatore, che ha i poteri per chiedere chiarimenti al funzionario e agire di conseguenza se non li riterrà esaustivi.

Non vorremmo neppure, però, che qualcuno pensi che atteggiarsi a vittima di discriminazione o di razzismo diventi una carta da giocare per esercitare indebite pressioni sui funzionari che applicano correttamente la legge.

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